25 gennaio 2008

RISI e BISI



Par quatro che magna ghe vol:
Quatro eti de risi;

Meza zeola;

Du eti de panzeta da taiare a cubiti;

Tri o quatro eti de bisi frischi desregolà, mejo se i xe picinin;

Mezo eto de butiro e on sculiero de ojo;

On litro de brodo de polastro;

Calche ramete de parsimbolo;

Nà spolveràdina de pevero;

Qualche spizigo de sale;

Se imprepara cussì:
Far andar on desfrito col butiro, l’ojo e la zeola, zontandoghe du tri sculieri de brodo e la panzeta;

Butarghe i bisi e tegnere alto el fogo (cussi i bisi resta pì verdi ) assando che i bisi se fiapa (i ga da supare tuto el liquido, ma atenti…);

salare solo quando che i bisi sarà coti.

Métare a cosere i risi sol brodo, butandoghe i bisi e tuto el resto a metà cotura;

A cotura finia la minestra (no’l xe risoto) la dovarà essare né fissa né mola, e de on bel colore verde …piselo;

Prima de servire zontarghe on bel pugno de parsìnbolo tridà, el pévaro e, sol piato, informajare par ben.

Racomandazion : pì bisi se mete, pì bona vien la piatanza…


24 gennaio 2008

Like a Hamlet





To be, or not to be--that is the question:
Whether 'tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them. To die, to sleep--
No more--and by a sleep to say we end
The heartache, and the thousand natural shocks
That flesh is heir to. 'Tis a consummation
Devoutly to be wished. To die, to sleep--
To sleep--perchance to dream: ay, there's the rub,
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause. There's the respect
That makes calamity of so long life.


23 gennaio 2008

Credete ai miracoli ?



C'era, non molto tempo fà e neanche tento distante da qui, un tizio talmente avaro che dava da mangiare alla moglie solo vino di ultima serie e annacquato e insalata scondita. Se arrivavano degli ospiti, da gretto che era, non si faceva trovare in casa o si nascondeva per non dover offrire loro le migliori pietanze e il miglior alloggio secondo le regole dell'ospitalità. Le uniche occasioni in cui lasciava che la tapina si sfamasse, mentre lui si ingozzava di pietanze e tracannava vino, erano i pranzi e le cene a cui veniva invitato da parenti e amici oppure a scrocco di avventori e conoscenti. Un giorno giunsero in quella casa due amici che vedendola si preoccuparono per l’aspetto della moglie del tizio e parlando, parlando, lei si lasciò sfuggire qualche lamentela e raccontò alcuni episodi sull'egoismo del marito. I due amici si angustiarono per la poverina e si adirarono per l’insensibilità del marito, quindi pensarono di mettersi d'accordo con lei per dare una lezione a quell'avaraccio egoista. Si recarono al mercato, comprarono una polverina che faceva dormire e invitarono il marito a pranzo che accettò ancor prima della domanda ,avendo egli la dote di auto invitarsi e imbucarsi in ogni pranzo. L'uomo mangiò a quattro palmenti anche perché il pranzo gli era stato offerto e secondo lui il cibo offerto aveva più sapore, anche se non mancò di fare le solite critiche e appunti sulla cucina, i due invece stettero a guardare e poi lo accompagnarono a casa. A casa l'uomo si addormentò profondamente a causa della gran quantità di sonnifero che aveva ingerito insieme al cibo e anche per la quantità esagerata di vino che aveva bevuto. Di notte, i due tornarono e lo avvolsero in un bianco lenzuolo che cucirono, lasciando solo una piccola apertura all'estremità del capo e lo portarono al cimitero. Qui, tolsero il coperchio ad una tomba vuota e vi misero dentro l'uomo come se fosse stato un cadavere. Poco alla volta, a causa del freddo a della posizione scomoda l'uomo cominciò a svegliarsi. Intanto i due si erano travestiti, infilandosi delle lenzuola con solo i buchi per gli occhi. Con un bastone presero anche a far piovere una gragnola di colpi sul malcapitato che risvegliatosi completamente, si rese conto di essere in un cimitero, dentro una tomba e pensò che le due figure animalesche altri non erano due angeli inquisitori. Allora cominciò a gemere e a chiedere pietà e i due travestiti iniziarono il loro serrato interrogatorio minacciandolo di morte se non avesse risposto sinceramente: " Ti sei mai preoccupato di altri al di fuori di te stesso? Quando hai dato a chi chiedeva il tuo aiuto?"- Lui pensò, pensò molto, voleva rispondere, ma non trovava risposta, e allora arrivò una bastonata da uno degli spiriti. -“Quando hai fatto a tua moglie un regalo che valesse quanto tu pretendevi per te?”- Anche a questa credeva di saper rispondere, ma qualcosa dentro glielo impedì,e così arrivarono due bastonate. -“Quando hai accettato una sua idea che fosse in disaccordo con le tue?"- A questa poi, non provò nemmeno a pensare ,e si prese rassegnato altre legnate. L’interrogatorio continuava e il poveretto continuava a non trovare risposte e di conseguenza a prendersi botte su botte ,ma stranamente cominciò ad avere il dubbio se gli facevano più male le bastonate o le verità che trovava dietro alle risposte che non riusciva a trovare a quelle domande. L'uomo incalzato dalle domande, scoppiò in lacrime e quelli lo pestarono più forte di prima finché non perse nuovamente i sensi. A quel punto lo riportarono a casa e dissero alle moglie: -"Non ti preoccupare, lascialo dormire, domattina vedremo se sarà guarito dall'egoismo”-. Il giorno dopo non appena l'uomo torno in sé, andò al supermercato e fece una bella spesa pensando che potevano esistere altri gusti e non solo i suoi. A tutti i bisognosi che incontrò diede denaro, affetto e comprensione. Comprò un bel regalo per la moglie e quando tornò a casa le diede tutte quelle belle e buone e lasciò ch’ella esprimesse le sue idee ed i suoi gusti ed i suoi desideri che lui approvava. Poi chiamò gli amici e li invitò ad una magnifica e ricca cena e arrivò ad offrire loro le pietanze e i vini che aveva sempre negato anche a se stesso. Cominciò ad ascoltare anche voci che non fossero solamente la sua e alla fine riuscì, a non volere aver ragione a tutti i costi, arrivando persino ad ammettere le sue colpe: La moglie e gli amici furono felici della trasformazione e da allora si convinsero che i miracoli esistono, perché l'uomo, finché visse, si comportò in modo altruista e generoso.

22 gennaio 2008

Fischia!?, il vento.


Il vento gira, oggi, sopra al fumo del camino,
intreccia nuvole bianche alle volute nere.


Oggi il tempo è pazienza, seduta aspetta che si alzi
e prenda, senza carezze, nuvole, foglie e attrezzi poi,
tritando il filo di ricordo spento, si lasci dietro il buio.


Oggi, sentendo il cupo rimuginare della stagione spoglia,
non scende il sole a lucidare i merli, a farli correre tra l’erba.


Sbatte l'imposta e ruota il gallo, all'erta guardia dei camini,
con aria sveglia; sempre portato a fare giocosi scherzi,
guarda da sopra e insegna, la rara dote dell’attesa.

21 gennaio 2008

Tanto tempo fà . . . !?


Un personaggio un po’ originale, se ne andava in giro raccontando una storia strana ma suggestiva, che lui assicurava fosse verità. Una storia che proveniva dai suoi ricordi di quando il mondo era peggiore o migliore, a seconda di come può sembrare a chi la racconta o chi la ascolta.
Quella vecchia storia, raccontata da un tipo tutt’altro che ordinario, che s’immedesimava nel cercare di riattaccare segmenti di ricordi e che, a ben guardare, poteva sembrare un miscuglio tra improbabili esaltanti fantasie e vaghe misere verità. Pezzi di ricordi di vita, d’esperienze e avvenimenti, forse conosciuti perché ascoltati o vissuti o inventati, ma in tutti i casi uno strano e lento racconto che avanzava incerto seguendo quella sottile linea di confine, tra il vero e il sogno.
Quasi una favola dove, come in tutte le favole degne di essere chiamate tali: c’era una volta tanto tempo fa; Ma tanto che nessuno può ricordare, c’era una volta un vecchio signore, molto vecchio, stranamente e forse innaturalmente troppo vecchio, talmente vecchio che da anni era rimasto solo e intorno a lui non vivevano altri esseri umani, non c’era più nessuno per cui parlava da solo, si arrabbiava da solo, si compiaceva da solo, mangiava da solo, dormiva da solo, insomma viveva da solo poiché era solo.
Il vecchio signore abitava in una vecchia casa, anzi, antica però anche molto vecchia, perché ormai cadeva a pezzi e, dall’aspetto che aveva ormai assunto, era difficile considerarla casa e lo si poteva affermare guardando i pochi miseri resti. Davanti al sentiero, che doveva essere stato il vialetto d’entrata della casa, si distinguevano i resti del vecchio cancello che dava su una strada, o quello che rimaneva di una strada.
La pista, appena riconoscibile, un tempo doveva sicuramente essere stato un viale bello ed importante, con alberi e lampioni, ma ormai era solo un passaggio infestato da malerbe e, ai lati, ceppaie rinsecchite.
La vecchia strada, dove si affacciava la vecchia casa del vecchio signore, attraversava i ruderi di quello che doveva essere stato, molto tempo prima un paese, ma a testimonianza rimanevano solo rovine e i muri diroccati degli edifici più grandi e della chiesa, era talmente rovinoso che non ci abitava più nessun essere umano all’infuori del vecchio signore.
Quel vecchio paese era talmente vecchio e talmente abbandonato che nessuno sapeva più dove fosse, né se ancora ci fosse, addirittura se mai ci fosse stato, tanto che nessuno lo conosceva e non compariva più nemmeno sulle carte geografiche.
Il vecchio signore unico abitante rimasto in quel vecchio posto era nato e cresciuto in quel paese che sicuramente era stato al centro di vita e d’affari ed aveva attraversato periodi di fama e di splendore.
Da giovane, il vecchio signore, in quel paese florido e moderno, passava per un tizio un po’ strano, era considerato diverso dagli altri giovani, veniva accusato da tutti d’arretratezza, perché non si adeguava ai tempi, perché non aveva mai voluto un’automobile o elettrodomestici o attrezzature automatiche o strumenti computerizzati, non gli interessava quella tecnologia d’avanguardia, quell’intelligenza avanzata. Quando era stato un giovane, il vecchio signore, dagli altri giovani era evitato e deridendolo lo chiamavano vecchio, perché al contrario di tutti non accettava la modernità e la sua continua evoluzione, ad esempio non voleva telefoni cellulari per parlare o telefax o personal computer né posta elettronica o note-book palmari, televisori digitali, antenne paraboliche, a lui bastava parlare in faccia alla gente, incontrare la gente, scrivere lettere alla gente. Quando era stato giovane, il vecchio signore, veniva additato come un’asociale da tutti, perché non si vestiva come tutti gli altri, non si spostava come tutti gli altri, non si divertiva come tutti gli altri. Quando era stato giovane, il vecchio signore, era considerato strano perché non mangiava cibi surgelati né liofilizzati o integrati o bilanciati e beveva acqua solamente, non andava ai fast-food, non si sballava in discoteca, non frequentava né iper o super o mega centri.
Non frequentava i locali giusti, non voleva divertirsi a tutti i costi, non assumeva farmaci omnivalenti o selettivamente efficienti per tutti i mali, non credeva nella moda e nell’apparenza, nelle tendenze, nel blocco delle menti, nell’ammasso dei cervelli, nell’infallibilità dei media, nell’uniformità del pensiero, nella collettività globale, appiattimento del pensiero. Mangiava il cibo che gli avevano insegnato i genitori e che, a loro volta (stranamente) avevano imparato dai loro, e così da generazioni e ancora: dormiva col buio e lavorava con la luce, leggeva libri, scriveva lettere, ascoltava musica si spostava a piedi e pensava, osservava e pensava molto.
In inverno si scaldava bruciando legna nel camino, in primavera arieggiava la casa aprendo le finestre, in estate godeva delle fresche notti dormendo sotto al portico, in autunno raccoglieva foglie e legna per la brutta stagione.
Da quando era stato giovane era passato tanto tempo, ma tanto che anche lui non sapeva più quanto, e tutto ciò che non aveva voluto e che tutti gli altri avevano avuto, non c’era più; Ma da tanto tempo non c’erano più nemmeno gli altri.

18 gennaio 2008

Con il vento nella testa



Sì, a volte fatico a capirmi, e poi sono arrivato al punto che mi do anche ragione, proprio per quelle idee strane e concetti e congetture e progetti e tanto altro ancora che mi ritrovo ad elaborare nella mia testa.
Sogno sogni fatali, sono sogni irreali, sono un sogno incomprensibile e potrei andare avanti ancora per molto ad assemblare questi giri di parole che nulla dicono nella loro arroganza di dare l’idea, ma l’idea è una luce che in questi momenti fatica ad illuminarsi, che vibra e trema tentando di crescere.
Le idee ci sono, ci sono? Ce ne sono tante ma che cosa sono le idee, quelle che puoi mettere in pratica: fantasie artigianali? sensazioni indotte da ciò che mi sta attorno? da quello che vedo e sento?
Forse solo quello che riesco a sentire e vedere, o ancora meglio quello che mi s’impone di sentire e di vedere.

Giro continuamente attorno a questo concetto isolato e ricco di attività prolifica, circumnavigo un’isola che conosco bene vedendola dal mare, ma che appena vi ponessi piede non saprei più che fare dove andare come muovermi.
Sono immobilizzato da qualcosa che mi impedisce di muovermi? Oppure non lo voglio io?
Non so più nulla, sono improvvisamente privo di qualsiasi conoscenza che mi permetta di fare.

Il tempo che passa ed il tempo che è passato, sono frasi o pensieri che portano a nostalgiche riflessioni.
Si arriva ad esplodere di rabbia, ricordando voci, episodi, odori, immagini; a me capita.

17 gennaio 2008

?



La porta del tuo cuore si apre con la chiave a stella del 16 ,
quella del mio è aperta da quando hai usato la fiamma ossidrica.

16 gennaio 2008

Meglio soli che . . .



Se vuoi che tutto ciò che davi fare sia fatto bene,
fallo fare a chi ne ha più voglia e fa meno fatica.

In fatto di sesso, di solito preferisco fare da solo,
almeno non devo preoccuparmi delle richieste assillanti prima,
delle continue distrazioni durante e delle critiche dopo.

15 gennaio 2008

Ciao!



Macchina, meccanica,tecnologica,

in ogni caso e comunque:femmina!

Ti do moto, vita, ti accendo, vado.


Guardando teso al largo, esteso.
vedo riflessi di sole accecante
e torno a guardare, più chiuso.
Rivedo luce, tremare le ombre:
prendo con calma ogni cosa,
lascio soltanto il posto avuto.
Avverto che vado e che lascio.
Avviso che il tempo è già perso.
Cammino via svelto il percorso.
Raggiungo il mio punto prescelto.
Mi Appoggio sul palmo col volto
e assisto distratto a un discorso.
Arrivano altri e altri che passano
andando di corsa, ognuno si ferma.
Rallento ma tiro dritto e non tardo,
riallungo il mio passo e mi sbrigo
poi chiedo se posso e l’aspetto.
Osservo le smorfie e impressioni
risento, discorsi contorti e confusi
ma credo alle sole parole. Segnali!
mi indican strade sicure o dubbiose
se prendo consigli o decido da solo.
Con calma respiro ed aspiro il fumo
e avido bevo in bicchieri bagnati
e mastico calmo alimenti scottati.
Salate le spese ed i piatti scontati,
riprendo il discorso su strade bagnate,
risiedo accanto agli ignoti passanti,
rileggo le pagine e i fogli stampati.
Aumenta il caldo, la radio e il motore
il sole riduce quel poco di luce rimasta,
già termina il giorno e la notte ritorna.
Mi stendo e riposo sul giorno passato,
preparo il coraggio per il giorno dopo
e muovo sudato il mio sonno agitato.
Piango nel sonno, nel sogno del gioco.

14 gennaio 2008

le settimane bianche


Questa mattina mi sono svegliato e mi sono reso conto, da quel che ho visto e sentito fuori e dentro me stesso che è cominciato un nuovo anno e come vuole il mondo, il tempo e il creatore, è cominciato come sempre nel freddo dell’inverno.

Da dietro i vetri della finestra nel caldo della mia casa vedo un velo bianco di gelo che copre il panorama di sempre e mi fa ritornare ad altri inverni forse più freddi, sicuramente meno pensierosi.

Penso e mi rivedo quando, ragazzino in mezzo a tanti altri, andavo a scuola elementare, a piedi tra la neve che copriva strade e stradelli ghiacciati; Ero in terza, e sotto al cappottino avevo il grembiule nero con il fiocco azzurro mentre sopra, sulle spalle, portavo la cartella a zaino.

Inverni gelidi allora, i più freddi che ricordo, tanto che per le forti nevicate e altrettanto ghiacciate, alla mattina si arrivava tardi a scuola e alla fine delle lezioni si arrivava più tardi del solito a casa.

La strada che di lì a pochi anni avrebbe collegato la vecchia scuola al nuovo paese non era ancora stata costruita e si usava percorrere una stradella in terra battuta, che si snodava tra i prati che tra la strada nazionale e la campagna coltivata, la via più corta e sicura per arrivare.

Alla fine del percorso, in prossimità della scuola si risaliva per la scarpata sulla strada che stava più in alto dei prati di alcuni metri.

Quell’inverno aveva portato molta neve, già da novembre era nevicato, tutto era coperto da una coltre bianca dove noi bambini affondavamo fin quasi al ginocchio il gelo poi aveva formato lastroni di ghiaccio lungo tutto il percorso della stradella ed in particolare sui due sentieri che risalivano per la scarpata stradale.

I sentieri erano diventati le piste ideali per gare di slittino, e noi bambini, ci ritrovavamo su quelle piste gelate dove ci lanciavamo in ardite e a volte pericolose discese.

Ogni giorno veniva dispensata la razione pro capite di lividi, distorsioni e contusioni varie, fino ad arrivare a qualche ferita lacero-contusa per non parlare di indumenti vari strappati al punto da renderli inutilizzabili.

Eravamo talmente presi dallo scivolamento su quei sentieri ghiacciati da ricorrere ad ogni mezzo che potesse servire per rendere ancor più emozionante le gare.

Ovviamente nessuno disponeva di uno slittino adeguato perciò si provava con tutto ciò che si reputava idoneo allo scopo: assi di lagno, casse per la frutta, lamiere, pneumatici d’auto e tant’altro ancora fu recuperato e usato, tanto nell’estate successiva sul prato si potevano rivedere tutte quelle cose a mucchi tanto da farlo assomigliare più ad una discarica.

Cominciammo a fare qualche gara di discesa anche prima dell’entrata a scuola, scoprendo che le cartelle scolastiche, allora di buon cuoio, bene si adattavano al ruolo di slittini, e così un po’ un giorno, prima di entrare, un po’ un altro, anche all’uscita si arrivò ad aumentare i tempi di presenza in pista a scapito di quelli a scuola o a casa, dopo le lezioni.

Si andò avanti così fin quasi a marzo fintanto, cioè, che rimase il ghiaccio sui sentieri, poi cominciò il disgelo e le pozzanghere conseguenti che decisero la fine delle nostre settimane bianche.

11 gennaio 2008

Cattivi pensieri




Ognuno è architetto della propria fortuna, ognuno è medico della propria salute,
ognuno è giudice delle proprio comportamento,
ognuno è allenatore della propria fisicità,
ognuno è sacerdote della propria fede.
Non credo sia ancora il caso di continuare a parlare di disoccupazione.

La mia compagna
dice di sentirsi come una vittima della repressione comunista,
ogni sera quando viene a letto dopo un po’ scende, e va dal frigorifero.
Almeno a lei è stata concessa la facoltà di sceglierselo, il gulag siberiano.


07 gennaio 2008

La dolce Annina


La mattina, quando uscivo di casa per andare a scuola, alla comunale, come si diceva allora della scuola elementare, facevo di tutto per perdere tempo soffermandomi sul portone, sul cancello o per la strada fino all’arrivo di Annina.
Lei abitava nel mio stesso quartiere, frequentava la mia stessa scuola, anche perché c’era solo quella, però nell’ala dell’edificio dove c’erano le classi femminili.

Annina era bionda di capelli ma di un biondo particolare, quasi oro, raccolto in un paio di lunghe trecce che incorniciavano un viso ovale spruzzato di lentiggini, una creatura dolcissima con un sorriso meraviglioso, era sempre allegra, serena e ben educata, e non alzava mai la voce, perciò era simpatica a tutti.

Annina, con quell’aria paffutella, eh sì! In effetti era un po’ formosetta, certamente non grassottella, ma morbida e molto piacevole ma io, a quell’età, come tutti gli altri bambini, preferivo stare insieme ai maschi, evitando le bambine che avevano altri giochi, altri modi, che con i nostri non si potevano paragonare.
La sola eccezione che facevo era per Annina, che mi disarmava; Non mi riusciva a comportarmi come di solito facevo con le altre bambine, anzi, non riuscivo nemmeno a comportarmi come facevo normalmente in qualsiasi altra occasione.
Mi perdevo, e se da un lato mi metteva a disagio, da un altro mi riempiva di serenità la sua rassicurante presenza.
In qualsiasi posto mi venissi a trovare, se c’era Annina, riuscivo a capirlo; Percepivo, nell’aria, quel profumo di buono, quell’odore che è proprio e personale di ogni individuo e che, nel caso di Annina, sapevo riconoscere al di là di ogni possibile fraintendimento.
Quell’odore saziante e stimolante di tutti i sensi, di buon mangiare e bere, di riposo dopo una fatica, di sollievo dopo la paura, di festa e allegria, di necessario e di superfluo; Quell’odore che, nella vita, capita di incontrare entrando in un luogo che, qualsiasi esso sia, può diventare di perdizione e, allo stesso tempo, di pentimento, e poi di redenzione e ancora di languida consolazione.
A ben pensarci, l’immagine che Annina dava di se era, nell’insieme, una visione di buona bellezza o di bella bontà, non sò ben dire: non riesco a descrivere con più precisione cosa fosse per me, allora, quella dolce creatura che riusciva a darmi sensazioni che non conoscevo, perché non capivo, ma che di lì a poco tempo avrei apprezzato, riconosciuto e rincorso.
Quella sorridente bambina aveva il potere di farmi continuamente rivivere i miei legami più cari di allora e più gelosamente custoditi. Passandole accanto percepivo il profumo del pane appena tolto dal forno che, a quei tempi, facevano le donne della famiglia nella gran casa in mezzo al grande podere.

In certe occasioni, sfiorando la sua pelle, sentivo gli aromi sedanti in cui riconoscevo lo spirito della grande cucina dove, emozionato, trovavo ristoro dagli affanni e protezione dalle arrabbiature di mio padre. Nelle giornate di primavera, dopo affannose corse attraversando i prati fioriti, ci buttavamo stanchi e sudati sull’erba e, ansanti, ci riempivamo il naso e la bocca di aria e delle fragranze di tutta la natura che ci stava attorno, in quei momenti sentivo, di Annina, una tempesta di profumi buoni e invitanti, come se mi fossi trovato in pasticceria. Vergognosamente, anche se non capivo perché, cercavo di nascondere quel desiderio, quasi incontrollabile, di addentare la sua pelle che mi tentava al pari di spumose creme.
All’entrata della scuola, per raggiungere le aule, attraversavo un ombroso e umido androne e, in certe giornate buie e piovose d’autunno, attraversandolo con a fianco la mia bionda amica, mi sembrava di essere nella cantina del nonno, guardavo le forme che quella strana luce dava alla figura d’Annina e non riuscivo a fare a meno di aspirare profondamente, per assaporare quell’improvviso profumo di mosto e di vino che si materializzava quasi per magia.

Col senno di poi, col senno di adesso, mi rendo conto che erano burrasche d’istinti sconosciuti, che si ammucchiavano in caotica sequenza, ma che oggi sarei ben contento di poter tornare a gustare, cercando di identificare e catalogare in buon ordine, centellinandoli ad uno, ad uno; Quindi, lasciarli liberi di scatenarsi in traumatizzante confusione. Annina era la saziante serenità della mamma, era l’ingorda opulenza della cuoca, era l’appetitosa impazienza della morosa, era l’appagante appetito della moglie, era l’esasperante golosità dell’amante, era il frugale assaggio proibito.
Non sapevo, né potevo immaginare che in Annina c’era, come in tutte le esponenti dell’altra metà del cielo, l’intero mondo d’odori e sapori che riempiono, intrecciandosi negli anni, la vita fortunata di quelle persone che non si accontentano di vivere gli avvenimenti, ma che fanno di tutto per farli accadere.
Quell’anno passò, alternando momenti sereni, passati all’ombra della rilassante tranquillità d’Annina e momenti di tensione, per lo scherno dei compagni che non riuscivano a capire cosa ci trovassi di tanto interessante nel frequentare quella bambina. Finirono le scuole e durante le vacanze estive incontrai Annina alcune volte, ma presto capii che non era più come prima. Durante la scuola vivevo al massimo quegli attimi fuggenti con Annina, aspettavo quegli momenti e finalmente, quando mi trovai a poter disporre di tutto il tempo che volevo, da passare con lei, mi resi conto che avevo poco da dire e da fare e quel poco era anche poco interessante. Io, per lei, ero più strano; Lei mi pareva meno bella, meno sorridente, meno interessante. Io mi sentivo, il più delle volte, impacciato; Lei, a volte, addirittura annoiata da quel gran niente che, un po’ alla volta, nasceva tra noi.
Quell’anno, all’inizio della scuola, mi accorsi della mancanza d’Annina solo perché me lo fecero notare i compagni di scuola, appresi che la dolce amica si era trasferita in un altro paese e, di conseguenza, aveva cambiato scuola; Pensai che forse non l’avrei più rivista. La rividi, invece, e fu durante una visita ad un museo organizzata dalla mia scuola insieme con altre in occasione di un evento particolare, una commemorazione o qualcosa giù di lì.
Lei non mi vide, anche perché io feci di tutto per rendermi invisibile ai suoi occhi, Annina era raggiante e parlava di continuo in mezzo ad un nugolo di ragazzini che le stavano appiccicati attorno. Non riconoscevo più la dolce e malinconica amica in quella esuberante e chiassosa bambina, che non perdeva occasione per lanciare acuti gridolini e chiassose risate ad ogni battuta stupida o complimento melenso provenienti da quel branco di ragazzini rapiti dalla affascinante biondina.
Rimasi male, ci pensai per un po’, poi:la scuola, i giochi e gli amici riempirono di nuovo la mia esistenza.
Di Annina mi resta il ricordo del suo profumo di buono che, di tanto in tanto, all’improvviso riaffacciarsi di frammenti di ricordi, si ricompone nelle mie narici, lasciandomi, per pochi istanti, tanto meravigliato quanto estasia
to.

Oggi comincia un anno nuovo,e non solo.





S
ono arrivato l'anno scorso, a giugno, il 9 giugno per l'esattezza.
Sono arrivato dopo una vita che, bella o brutta, sempre una vita è stata.
Da quando sono arrivato ho soltanto pensato e progettato e costruito nella mente, i percorsi che avrei fatto nel riritrovarmi in un nuovo mondo; adesso comincio, mi muovo, prendo il via, la corrente, il largo, mollo le cime, metto la prima e ancora tutto quello che si può dire per una partenza.
Sono un essere nuovo, bè proprio nuovo no, ma forse rinato, rifatto sicuramente anche se solo in parte, e che parte!
Il soffio di una notte mi ha rimesso in corsa, le mani di un'anima miracolosa mi hanno miracolato .
Ora non posso più prendere tempo, alea jacta est, e via andar! senza pensieri e senza rimpianti, dietro restano esperienze e ricordi, capiamoci! tutte cose molto importanti, ma a volte ingombranti e non sempre utili da riutilizzare, non sempre adattabili per nuovi eventi .
Bene, questo è l'incipit ed ora mi riprometto di mettere in chiaro tutto, ma proprio tutto e non mi accontento e non transigo: mai più compromessi, basta pace a tutti i costi, non si si può sempre condividere, non si può essere amici sempre, con chiunque, in ogni modo, per forza, per pietà o per convenienza .
Alla prossima.