27 ottobre 2008

Cappuccet Red & the lup


One mattin Cappuccet Red's mamma dissed: "Dear Cappuccett, take this cest tothe nonn, but attention to the lup that is very ma very kattiv! And torn prest! Good luck! And in bocc at the lup!".

Cappuccett didn't cap very well this ultim thing but went away, da sol, with the cest.

Cammining cammining, in the cuor of the forest, at acert punt she incontered the lup, who dissed:"Hi! Piccula piezz'egirl! 'Ndove do you go?".

"To the nonn with this little cest, which is little but it is full of a sacc of chocolate and biscots and panettons and more and mirtills", she dissed.

"Ah, mannagg 'a Maruschella (maybe an expression com: what a cul that had) dissed the lup, with a fium of saliv out of the bocc.

And so the lup dissed:"Beh, now I dev andar because the telephonin is squilling, sorry."And the lup went away, but not very away, but to the nonn 's House.Cappuccett Red, who was very ma very lent, lent un casin, continued for her sentier in the forest.

The lup arrived at the house, suoned the campanel, entered, and aftersaluting the nonn, magned her in a boccon.

Then, after sputing the dentier, he indossed the ridicol night beret and fikked himself in the let.When Cappuccett Red came to the fint nonn's house, suoned and entered.

But when the little and stupid girl saw the nonn (non was the nonn, but the lup, ricord?) dissed:"But nonn, why do you stay in let?".

And the nonn-lup:"Oh, I've stort my cavigl doing aerobics!"."Oh, poor nonn!", said Cappuccett (she was more than stupid, I think, wasn't she?).

Then she dissed:"But...what big okks you have! Do you bisogn some collir?"."Oh, no! It's for see you better, my dear (stupid) little girl",dissed the nonn-lup.

Then cappuccett, who was more dur than a block of marm:"But what big oreks you have! Do you have the Orekkions?"

And the nonn- lup:"Oh, no! It is to ascolt you better".And Cappuccett (that I think was now really rincoglionited) said:"But what big dents youhave!".

And the lup, at this point dissed:"It is to magn you better!".And magned really tutt quant the poor little girl.

But (ta dah!) out of the house a simpatic, curious and innocent cacciator of frodsented all and dissed:"Accident! A lup! Its pellicc vals a sac of solds".

And so, spinted only for the compassion for the little girl, butted a terr many kils of volps, fringuells and conigls that he had ammazzed till thatmoment, imbracced the fucil, entered in the stanz and killed the lup.

Then squarced his panz (being attent not to rovin the pellicc) and tired fora the nonn (still viv) and Cappuccett (still rincoglionited).

And so, at the end, the cacciator of frod vended the pellicc and guadagned honestly a sacc of solds.

The nonn magned tutt the leccornies that were in the cest.

And so, everybody lived felix and content (maybe not the lup!)

22 ottobre 2008

Caccia grossa


Si Aggirava allora per il paese, una banda di ragazzini terribili, che era vista come la tempesta per i frutteti, e andava famosa per il fatto che non si cimentava più di tanto sui soliti giochi che facevano tutti gli altri bambini, ma per inventarsi e trovare sempre modi nuovi per divertirsi uscendo molto spesso dai confini del normale. Proprio in quel periodo avevano scoperto un nuovo modo per riempire le giornate, una nuova e interessante attività nella quale stavano impegnando tutto il loro tempo libero dalla scuola, dando il massimo di se stessi: il tiro con la cerbottana. Grazie ad un programma di documentari visti in televisione, sugli usi e costumi di certe popolazioni indigene delle foreste tropicali, avevano potuto scoprire l'uso che quelle facevano della cerbottana per cacciare, e la cosa aveva creato in loro non poco interesse. Trovate delle canne di plastica che si adattavano bene allo scopo, di quelle che già allora usavano gli elettricisti per infilarci i cavi degli impianti elettrici delle case, le tagliarono della lunghezza più appropriata dopo vari studi e non pochi tentativi, in modo da poter ottenere allo stesso tempo potenza e precisione sia nei tiri corti quanto in quelli lunghi. I proiettili, da fare partire soffiando in modo appropriato da un’estremità della canna, erano confezionati arrotolando su se stesse, delle strisce di carta ritagliate dai giornali, avevano talmente affinato le varie tecniche per la pratica dell'uso del tiro con cerbottana, da essere considerati veri esperti. I giovinastri, quando erano liberi dagli impegni scolastici andavano in giro con le loro armi, primitive si! ma che avevano elaborato e modernizzato in varie forme, ad esempio a canne multiple fissate attorno ad un corto pezzo di legno sagomato per tiri a ripetizione in rapida sequenza, oppure un'unica canna lunga fissata su di un'assicella con tanto di mirino regolabile per tiri precisi a lunghissima gittata I proiettili furono oggetto di studi ancor più approfonditi, si arrivò a confezionarli con materiali di diverso spessore e consistenza a secondo dell'uso specifico nonché per la stabilità della traiettoria o la consistenza del bersaglio; si andava dalla di carta di quaderno o giornale o rivista patinata fino alla carta oleata (quella usata dai bottegai per intenderci) o la stagnola. Alla fine quella masnada di piccoli lanzichenecchi avevano raggiunto un livello nell'uso della cerbottana decisamente alto e invidiabile, ed erano diventati talmente bravi e precisi tanto da sfidarsi continuamente cercando bersagli sempre più difficili. Si sa, per chi si considera un buon tiratore il bersaglio più ambito è quello in movimento, per questo quelli erano continuamente in perlustrazione alla ricerca d’uccellini sui rami o ranocchi e rospi negli stagni, oppure lucertole e ramarri tra i solchi dei campi, ed erano continue sfide durante le quali si sentivano protagonisti di battute di caccia. Fu in un giorno di autunno, forse ottobre o novembre, tant'è che già cominciavano a calare le prime nebbie, quando durante una delle tante battute arrivarono nei paraggi del podere della signora Elide e camminando arma al fianco sempre pronta, rasentando la recinzione la loro attenzione fu attirata da ciò che ci stava dentro. Appena fuori dell'abitato e a poche decine di metri dalle ultime case c'era ciò che rimaneva di un gran podere, ma che negli anni del dopoguerra a poco a poco si era ridotto solo alla grande casa con aia, e ad un po’ di terreno attorno. La ricostruzione del paese prima, e la nascita di fabbriche ed industrie poi avevano fatto sì che nel paese ci fosse sempre più bisogno di case e d’alloggi, così una fetta oggi, una fetta domani i proprietari del podere avevano tagliato e venduto gran parte dei terreni a chi voleva costruire edifici. Dei proprietari alla fine erano rimaste solo due donne, madre vedova e figlia da sposare ed erano anche le ultime persone rimaste ad abitare quella gran casa, dove un tempo vivevano abitavano e lavoravano parecchie famiglie di contadini. Oggi dove allora si ottenevano grandi raccolti dai seminativi e dai frutteti, restavano pochi ritagli di terra coltivati direttamente dalle due donne che ne ricavavano verdure e ortaggi vari, queste erano La signora Elide e la figlia Bianca che vendevano i loro prodotti per poter provvedere alle necessità quotidiane, inoltre, come in tutte le case di campagna che si rispettino, c'era attorno anche a quella un numero imprecisato fra galline ed altri volatili da cortile che scorrazzavano liberi e ben nutriti perché anch'essi allevati per essere poi venduti. Non c'è niente da dire, erano proprio delle belle galline quelle della signora Elide, le tirava su a granoturco ed erano molto ricercate dalle massaie, mettere in tavola un pollo di quelli era una garanzia di successo. Le galline vagavano libere dovunque, tanto la proprietà era recintata da un’alta rete metallica, però il pollame prediligeva stazionare nei freschi prati ombreggiati sotto agli alti salici dietro la casa, e fu in quel punto che li videro in quel pomeriggio, e per tutti loro fu un unico pensiero, come un lampo: non vedevano le galline della Signora Elide, ma le ambite prede di una battuta di caccia grossa. Viste da quella distanza con la luce di un pallido sole autunnale velato da una foschia polverosa che pareva di vedere tutte le cose dietro una lente, quelle galline sembravano grandi fiere degne della savana africana, e loro lì immobili a guardarle ammirati stringendo tra le mani le cerbottane, ed estasiati, con lo stesso sguardo che sicuramente ebbe Heminghwai la prima volta che guardò un branco di elefanti dietro il mirino della sua carabina, durante un safari nelle sue "verdi colline d'africa". Capirono allora che era arrivato il momento in cui fare il salto di qualità, se volevano essere indiscutibilmente i migliori, dovevano essere in grado di affrontare le prove più Con gran competenza strategica, si divisero in due gruppi e, con lenti e silenziosi ma calcolati movimenti, raggiunsero quelle che avevano individuato come le due posizioni chiave per raggiungere il massimo del risultato. Quando furono appostati caricarono le canne con i proiettili da caccia grossa e cioè quelli fatti con la carta oleata da pizzaiolo (di grande stabilità balistica e forza d'urto) e quelli con la carta stagnola (micidiali e devastanti nei tiri tesi), consapevoli del fatto che per scagliarli con la potenza necessaria alla distanza che li divideva dai bersagli, dovevano prodursi in un grande sforzo: sì ! li aspettava una dura prova, ma loro erano decisi e determinati a superarla. Il branco intanto, ignaro di ciò cui stava andando incontro, procedeva verso la porzione di prato in cui la delimitazione della rete formava un angolo retto, ancora poco e le belve da cortile si sarebbero trovate al centro dei tiri incrociati dei due gruppetti appostati e immobili. Uno sguardo, un gesto e in un istante si scatenò un inferno, simultaneamente otto bocche soffiarono tutto il fiato che avevano nelle cerbottane, facendo partire i micidiali proiettili che raggiunsero, cogliendole di sorpresa, le malcapitate galline. I cacciatori continuavano con movimenti febbrili a ricaricare e soffiare nelle cerbottane, mentre il branco polli riavutosi dalla sorpresa cominciò a correre ad ali spiegate cercando di portarsi lontano dal pericolo sbandandosi in varie direzioni, alcuni di loro visibilmente in difficoltà nei movimenti perché colpiti, altri stramazzavano inesorabilmente al suolo freddati dai proiettili. A quel punto il gruppo degli assalitori, sia perché stavano esaurendo le munizioni, che per non farsi trovare in flagrante dall'Elide che sicuramente sarebbe arrivata attirata dal gran baccano fatto galline, si ritirò com’era stato previsto dal piano, prendendo per i campi che già erano avvolti dalla nebbia e scomparirono definitivamente. L'Elide effettivamente sorpresa dallo schiamazzare dei polli e vedendoli correre si preoccupò e girò dietro casa per andare a vedere cosa fosse successo, e quando nella nebbia cominciò a distinguere le galline immobili a terra o che si muovevano a fatica, capì che quella era opera un cane randagio e affamato che, trovato il modo di superare la recinzione, aveva fatto quel disastro e se n’era scappato al suo arrivo. Nei giorni successivi giravano per il paese voci e chiacchiere relative all'accaduto, note di cronaca degne di non grande interesse, una: era la storia che la signora Elide andava raccontando a tutti della sortita di un cane randagio nel suo pollaio, e del fatto che non si spiegava però, come mai i polli, morti o feriti, non avevano addosso i segni lasciati dai denti dell’animale, ma da coni di carta stagnola più o meno lunghi. L'altra era che quella banda di scavezzacolli non gironzolava più attorno al paese con quelle canne in mano, anzi quelle pesti apparivano stranamente calmi e avevano tutta l’aria tranquilla e soddisfatta di chi sta gustando il riposo dopo aver raggiunto, da vincitore, il traguardo.

20 ottobre 2008

Etta


In un rifugio di montagna, viveva un tempo una giovane di nome Hildeghardekinderschwarzenpirlenscheider Gazzaniga ma conosciuta dai valligiani come Etta diminutivo di schiavetta per via delle preferenze enologiche del padre che tramandò alla figlia in forma anche più ampia. Un giorno mentre era nel bosco a raccogliere le pernici che aveva tirato giù a schioppettate, incontrò un vecchietto dai capelli bianchi che le disse:" Perché sospiri così Etta? Hai il fiatone per l’età o c’è qualcosa che ti tormenta?"

"La mia infelicità,come il mio fiatone, é così grande che non puoi nemmeno immaginare. Se almeno potessi avere una vigna,la mia vita sarebbe più bella; potrei accudirla e crescerla , così avrei uva da mangiare e mosto da cuocere e vino da bere... sarei proprio felice." Il buon vecchio scosse il capo e le disse:" Voglio aiutarti,torna a casa e vedrai." Etta se ne tornò,con la doppietta in spalla e le pernici alla cintura e,giunta davanti a casa sua non credette ai suoi occhi: nell’appezzamento dietro casa proprio lungo il fianco della collina c’erano lunghi filari di vite che si alternavano a olmi e ciliegi che sorreggevano il groviglio di foglie e pampini. Qualche giorno dopo,Etta tornò nel bosco a togliere scoiattoli e marmotte dalle sue trappole e all'improvviso il vecchio dai capelli bianchi le si presentò dinnanzi. "E allora Etta sei felice?" le chiese dolcemente. "Sì" rispose lei "sono felice disse strascicando un po’ le parole per via dell’effetto del vino, ma..." "Che vuol dire ma?" chiese il vecchio. "O sei felice o non lo sei, cosa ti manca?" "La cantina é mezza diroccata, vi piove dentro e d’estate fa troppo caldo mentre l’inverno è fredda. Se avessi una bella cantina,allora sì che sarei felice!" Il buon vecchio sorrise e disse:" Torna a casa ed avrai una sorpresa." Etta finito di accoppare due scoiattoli presi nelle trappole tornò verso casa e vi trovò una moderna cantina solida,impermeabilizzata e climatizzata piena di tini di botti e bottiglie con tanto di bancone per l’assaggio e la mescita. Etta si mise, per la gioia, a tracannare vino fino a svenire. Qualche giorno dopo, Etta ritornò nel bosco, camminando malferma per l’effetto dei continui corsi di specializzazione sul vino sospirando tristemente. All'improvviso il vecchio apparve e, fissandola le chiese:" Allora Etta sei felice finalmente?" "Sì" rispose la giovane."Come potrei non esserlo,ma..." "Ancora un ma?" disse con stupore il vecchio. Etta cominciò a piagnucolare: " Tutte gli altri osti e cantinieri hanno belle divise e belle posate e bicchieri da sogno. Non posso avere buoni clienti se non ho il look giusto ed il locale trendy."

"Non é niente" fece il vecchio. "Tornatene alla cantina, hai già ciò che desideri."Etta riuscì a trascinarsi fino a casa; aprì la porta della cantina e per la sorpresa rimase inchiodata sulla soglia. Sopra al tavolo, c'erano preziosi calici e pregiate caraffe e levatappi d’osso sacro di bue muschiato e posate d’oro tavoli apparecchiati con pietanze meravigliose. Sul bancone una bella divisa da chef, mentre un altra da maggiordomo era posato su una panca ed una terza da feldmaresciallo di sala era alla carta dei vini. Etta urlò dalla gioia e si affrettò a provarli e mise subito alla prova il tutto stappando e bevendo bottiglie di vino a più non posso. Trascorse qualche giorno ed Etta tornò nel tornò nel bosco; decisamente ubriaca vagava col capo chino e, quasi si scontrò col vecchio. "E allora Etta sei felice adesso?" esclamò. "Certo che lo sono"rispose la giovane. "Sono felice,ma..." "Che cosa ti manca ancora?" "Ho una azienda vitivinicola di pregio, un locale di tendenza, e clientela raffinata. Ma a che serve tutto ciò se sono sempre sola? Tutte hanno un fidanzato e si maritano, mentre io resto sempre sola!" "E sia!" acconsentì il vecchio dalla testa bianca. Etta non senza fatica riuscì a tornare a casa e davanti alla sua porta c'era un bel giovanotto. Era quello anche un famoso somellier che si contendevano i locali più esclusivi e le donne più affascinanti entrambi per via del tutt’uno tra la sua abilità professionale,predisposizione fisica e cognome: Grantirebuchon. Appena vide Etta egli le andò incontro e dichiarò: "E' ancora disponibile quel posto da assaggiatore ?”

Si! rispose Etta ,anzi vieni ben qui che ti faccio l’esamino: orale e pratica!

Etta si chiuse con il giovane nella cantina e ne uscì solo dopo un mese e il bel giovane, che chiaramente era riuscito a superare l’esame per il posto da assaggiatore, le aveva anche chiesto di sposarlo. Il giovane sommellier era anche il rampollo di una facoltosa famiglia di banchieri proprietaria di tutte quelle valli e paesi. Poco tempo dopo venne celebrato il matrimonio e, tutto il villaggio ballò e si ubriacò fino all'alba. Passò qualche giorno ed Etta tornò nel bosco. Il vecchio dai capelli bianchi le si fece nuovamente incontro e rivolgendole un sorriso le chiese: " Allora Etta sei felice finalmente?"

Etta gli lanciò uno sguardo corrucciato e gli rispose con tono altezzoso:" Come ti permetti screanzato vecchiaccio? Sappi che d'ora in poi io per te sono la signora Hildeghardekinderschwarzenpirlenscheider Gazzaniga in Grantirebuchon; moglie del padrone di queste valli e signora di tutti gli esseri che le abitano, te compreso!

17 ottobre 2008

pluviam

MISSALE ROMANUM
ORATIONES DIVERSÆ

_______________________

16. AD PETENDAM PLUVIAM

Oratio


DEus, in quo vívimus, movémur et sumus: plúviam nobis tríbue congruéntem; ut, præséntibus subsídiis sufficiénter adiúti, sempitérna fiduciálius appetámus. Per Dóminum.

Secreta

OBlátis, quǽsumus, Dómine, placáre munéribus: et opportúnum nobis tríbue plúviæ suffíciéntis auxílium. Per Dóminum.

Postcommunio

DA nobis, quǽsumus, Dómine, plúviam salutárem: et áridam terræ fáciem fluéntis cæléstibus dignánter infúnde. Per Dóminum.

12 ottobre 2008

Osvaldo amatore



Osvaldo in ammollo di candida schiuma

lisciava quel seno nell’acqua che fuma.

Lasciando lascivo il suo posto, girando

sul fianco lisciato, scendea scivolando.

Un suono di trombe, campane e violini,

scialando lo sciolse tra giochi supini.

Ansante nel canto, ignorato il divieto,

si lasciava andare a volume indiscreto.

E sciacqua, risciacqua s’abbassa il tepore

sia quello dell’acqua che quel dell’amore.

S’invola dal campo, della prova dura ,

già pronto a cercare una nuova avventura

09 ottobre 2008

Quel barbiere era il mio


La prima volta che incontrai Gustavo il barbiere, che poi diventò il mio barbiere, e infine l’amico barbiere che mi è rimasto nel cuore e per più ragioni nella testa, avevo sì e no due anni; ma quella non conta e non contano nemmeno tutte quelle altre, quando mio padre mi portava assieme a lui a farsi fare i capelli, perché ai miei ci pensava la mia mamma. La prima volta che Gustavo ed io ci si conobbe veramente, almeno per quanto mi riguarda, avevo sei anni portavo i calzoni corti all’inglese, la cartella a zaino e andavo alla scuola elementare: da solo e in bicicletta. Ma anche se ci frequentavamo da anni e tra noi c’era una particolare simpatia, appena prese le forbici con una mano e la mia testa con l’altra, mi divincolai e guardandolo severo misi in chiaro che: i capelli da tagliare erano i miei quindi: lui poteva decidere il come, io avrei deciso il quanto. Gustavo era un omone che il destino, per strani giri, lo aveva messo a fare il barbiere anche se a vederlo, del barbiere non aveva di certo l’aspetto. Un pezzo di marcantonio alto come un corazziere e solido come una quercia, con due spalle da fare invidia ad un pugile e due enormi mani, nelle quali riusciva a farci stare, contemporaneamente, un numero incredibile d’attrezzi e strumenti necessari al suo lavoro, facendoli volteggiare mentre li passava dall’una all’altra, con la maestria di un giocoliere. Mani grandi come piatti da portata quelle di Gustavo, tanto impressionanti a vederle quanto delicate a sentirle, quelle enormi dita più adatte a stringere una chiave inglese di un paio di forbici, passando e ripassando sulla testa avevano uno straordinario effetto rilassante Dal barbiere andavo da solo però le direttive, che io non condividevo, sul taglio dei miei capelli erano impartite precedentemente da mio padre, pertanto Gustavo (memore del nostro primo incontro “professionale”) tutte le volte si trovava nella scomoda posizione che sta: tra l’incudine del ragazzino che voleva capelli più lunghi con un taglio riformista e il martello del padre che esigeva per il figlio una conservatrice spazzola. In quelle occasioni emergeva una delle maggiori doti di Gustavo: la diplomazia. Gustavo riusciva, facendo ricorso alle astuzie derivanti dalla sua lunga esperienza, ad accontentare il ragazzino senza scontentare il padre e così contribuiva a ricomporre le fratture generazionali, ma questa era una delle operazioni più ordinarie, infatti, il diplomatico barbiere molte volte ha salvato amicizie mediando tra estremistiche posizioni di tifosi durante grandi discussioni che si scatenavano nel suo salone, riportando le quasi risse a civili e educate discussioni. Per non parlare delle chiacchiere e dicerie che, se non controllate, partivano semplici ma, ad effetto domino, diventavano incontrollabili e Gustavo interveniva sempre al momento giusto per interromperle e deviare su altri argomenti. Gustavo che mi ha accompagnato per un lungo periodo di vita, che mi ha visto pargolo in fasce, che mi ha preso tra le sue enormi mani per depositarmi sul seggiolone applicato alle poltrone per portare la mia testa alla sua altezza. Il ricordo di quando mi sono seduto su di una delle poltrone del salone di Gustavo e la ruvida pelle logora, che ricopriva il sedile, sfregava la pelle delle mie gambe che uscivano dai pantaloncini corti. Di quando mi sono rimesso in piedi, quando Gustavo mi ha svolto dal telo bianco e prima di guardarmi i capelli nello specchio, ho controllato che la piega dei miei eleganti e impeccabili calzoni lunghi fosse ancora intatta e perfetta. Che nostalgia se ripenso alla visione riflessa dallo specchio di Gustavo che rincorreva, uno ad uno i primi peli che si affacciavano sulla pelle del mio viso in ordine sparso e che emozione la prima volta che lo ho visto impugnare il rasoio e, passandolo e ripassandolo sulla striscia di cuoio per affilarlo, si accingeva a radermi per la prima volta. I ricordi restano con il loro carico d’insegnamenti e, buoni o cattivi che siano, tutti sono serviti e servono a farti vedere, capire, decidere e anche la semplicità di quei piccoli ritagli di vita conosciuti nel salone di un barbiere, è stata esperienza preziosa che mi ha aiutato a crescere. Il ricordo più caro che conservo di Gustavo è legato al periodo della mia vita nel quale mi sono trovato, con molta confusione nella testa, a vivere il passaggio da ragazzo ad uomo, quel cambiamento che io già avvertivo da tempo ma che non capivo perfettamente e che stavano constatando anche coloro che facevano parte del mio vivere quotidiano. Restava il fatto che, se la rudezza degli amici da una parte mi creava più confusione, mentre la delicatezza dei genitori dall’altra non mi dava certezze, a ratificare il passaggio ci pensò lui con un semplice gesto. In occasione di un taglio pre-natalizio quando servito di tutto punto spazzolato e profumato mi stavo accingendo ad uscire, a quel punto Gustavo mi prese da parte e mi consegnò, come a tutti i clienti “uomini” una copia del mitico calendario tascabile. Quello dentro la bustina di carta velina, che veniva custodito segretamente e gelosamente dentro il portafogli e che, quando lo si estraeva, emanava quel profumo intenso e.. insomma! Che allo stesso tempo ammorbava l’abito e stimolava l’uomo.In quell’attimo presi dalle mani di Gustavo l’ambito trofeo e guardando il suo silenzioso sorriso capii che non servivano altre parole. Uscii dal caldo soffocante del salone con un brivido che mi percorreva la schiena, ma appena fuori mi avvolse una vampata di calore nonostante la neve che scendeva sulla strada gelata.

07 ottobre 2008

L'Artemia del latte


Nei nuovi quartieri incastonati nel reticolo di strade perpendicolari si erano trasferiti anche vecchi esercenti da soli o con i figli ,e tra le varie attività e botteghe una tra le più frequentate era la latteria. Punto di riferimento indispensabile per vecchi e mamme e lattanti ma, dal momento che oltre al latte vendeva anche gelati e dolcium,i era anche il riferimento principale per i bambini. L’avremmo voluta frequentare anche più assiduamente di quanto facevamo ma; c’era un ma che riusciva a dissuaderci dall’insistere troppo davanti alla vetrina. Tutte le mattine che il creatore mandava sulla terra, all’alba e a volte anche prima arrivava, annunciata dal rumore scoppiettante del suo motore a due tempi, “l’Apecar” dell’Artemia. Un motocarro, un trabiccolo a tre ruote in parte verde scolorito ed in parte verde arrugginito, stracarico di cassette di bottiglie di latte. A quei tempi era abbastanza inusuale vedere un lattaio su di un veicolo di quel tipo, se poi ci mettiamo che il lattaio era una lattaia, beh! Il tutto diventava ancor più strano, di difficile comprensione da parte della gente che in parte disapprovava e in parte non capiva. Proprio così! Il latte con il motocarro lo trasportava Artemia, la lattaia, anche se a guardarla bene non aveva nulla di femminile: né nei modi, né nella fisionomia, ancor meno nell’abbigliamento. L’Artemia non era propriamente la lattaia, giacché dietro al banco della latteria a sbrigare tutte le faccende relative alla gestione della bottega ci stava la figlia. l’Artemia era la factotum del negozio, quella che si occupava dei rifornimenti, carico e scarico delle merci, pulizia della bottega compresa l’apertura e la chiusura, insomma, tutto il lavoro pesante che di solito è svolto dal garzone di bottega, era suo. Non faceva comunella con le altre esponenti del gentil sesso presenti nel paese che fossero amiche, conoscenti o solo clienti della latteria. Nella sua vita dell’Artemia c’era posto solo per il suo lavoro, chiacchiere poche, non ne voleva sapere di perdersi in pettegolezzi, civetterie e sparlamenti vari con le altre anzi, spesso le invitava a non sciupare il loro tempo quando le vedeva in crocchio a parlottare. Un bel tipo l’Artemia che, oltre tutto questo e con buona pace dei paesani ,aveva l’abitudine di sfrecciare per le strade del paese a forte velocità, impegnandosi in manovre tanto ardite quanto pericolose alla guida dello scalcinato “Apecar”. L’altro aspetto poco benvisto dai compaesani era che l’arzilla centaura fumava come e più di un turco, delle puzzolenti sigarette perennemente penzolanti ad un angolo della bocca, e per tocco finale al quadro non mancava una occasione per esprimersi con modi e termini da fare arrossire di vergogna uno scaricatore di porto. Da tutto quanto ne veniva fuori un ritratto che non era certamente quello di una tranquilla signora di campagna già in la con l’età ed afflitta da qualche acciacco, come avrebbe dovuto essere l’Artemia se comparata con le coetanee signore che si vedevano allora. Era un po' una sfida entrare in latteria: quando l’Artemia ti rivolgeva la parola a quel modo brusco e con quella voce roca, bruciata dalle sigarette, sobbalzavi di timore e stavi bene attento a come ti comportavi, solo un suo sguardo bastava per raggelare ogni entusiasmo. Il ricordo più ricorrente dell’Artemia,e quello più condiviso da chi la ha conosciuta è legato all’immagine di lei impegnata nel continuo ed incessante movimento mentre scaricava o caricava casse sul piccolo cassone dell’“Apecar”, avvolta da quel lungo grembiule e con in testa un berretto di tela. L’Artemia aveva sempre qualche cosa da fare, non si fermava mai un attimo, non la vedevi mai ferma, però anche se presa in quel suo frenetico movimento trovava sempre tempo e modo per rispondere a tutti quelli che le si rivolgevano. Artemia ci vedeva lontano guardava distrattamente ma vedeva tutto, tutti i particolari, tutte le sfumature di un posto, di una persona di un umore, di una voce . Gli occhi della lattaia erano misteriosi a tutti perché tutti evitavano di guardarla negli occhi, Artemia invece te li ficcava addosso che te li sentivi entrare da un lato e uscire dall’altro, dopo averti rimestato dentro per vedere tutto quello che ti portavi appresso: cuore e cervello, sentimento e ragione. Solo chi è riuscito a fermare per un momento il suo sguardo in quello di Artemia ha visto la grandezza che ci stà nel creato, o meglio: ha imparato a farlo come veramente và fatto, come se gli occhi della burbera signora fossero una scuola dove s’imparava in una sola lezione a vedere oltre il guardare. L’Artemia aveva un cuore così grande che non sarebbe bastato il suo “Apecar” a trasportarlo, quel suo sguardo duro come la pietra era un fondale di carta pesta da teatro dietro al quale ella stessa cercava di nascondere, non so per quale timore, l’amore e la tenerezza che aveva un po' per tutti, ma in particolare per i bambini. Quello sguardo che si apriva in un sorriso quando non perdeva mai un’occasione per farci dono di un confetto o una caramella ogni volta che passavamo davanti alla latteria. Un gigante buono che si nascondeva dietro ad un aspetto minaccioso per timore di dover mostrare il suo vero animo, uno di quei frutti, fuori tutti ispidi e spinosi ma, dentro, di una dolcezza inebriante che una volta assaggiati non puoi più farne a meno.

06 ottobre 2008

galina col pien


Par siè che magna

1 Galina ruspante bela grossa e ciciota;

1 salsicia magra de porzelo (1 eto e mezo)

2 eti de carne masenà de manzo;

2 eti de carne masenà de porzelo;

8 Sculieri de grana gratà;

2 ovi intieri;

Cuore, fegato e stomego dela galina (i se ciama figaini o revìdui)

2 Sculiarini de erbete fine masenà (timo, oraro, basalìco, ec.)

1 Zeola

1 Ganba se sèlino;

1 Carota;

ojo, pévaro e sale quanto che ghe ne serve.

Se fa cussì:

1. Sa curè la galina, no ste butare via i revìdui; sa la conprè pronta portè a casa anca i revidui.

2. Tridare fin assè i figaini o revidui, dopo verli lavà par ben ( al stomego bisogna tirarghe via la pelesina interna);

3. Smissiare ben tuto insieme la carne masenà, la salsicia (pelà e desfata), el grana, i ovi e i figadini tridà, justando de sale e de pévaro e zontando le erbete (va ben anca quele seche);

4. Ciapare la galina e inpenirghe el pantazo co tuto sto ben de dio e cusire ...el saco, par davanti e par de drio;

5. Ciapè na pignatona co aqua de bójo, tuffeghe drento la carota, la zeola e el sèlino e po' la galina, che la ga da stare larga!

6. Assè cusinare col quercio par almanco do ore o, comunque, fin che la carne la vien tènara;

7. A metà cotura justare de sale (co sale grosso);

8. Cavè dal fogo, tajè a tochi la pora bestiola e servì on toco de galina e na parte del pien;

9. I tochi de carne dela galina la vien za saoria par ben, ma se uno vole zontarghe gusto, i se condisse co na salseta verde o co del cren;

10. Bevì quel che ve piase, ma no massa...

11. Par el contorno va ben purè de patate o erbete de canpo cote;

12. El brodo che vanza va ben par la sera co do tajadelete fate in casa...

01 ottobre 2008

Da strapparsi il cuore


Un giovane, un bel giovane, stava in mezzo a una piazza gremita di persone e diceva di avere il cuore più bello del mondo. Tutti quanti glielo ammiravano, era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto. Tutte quelle persone concordavano nell'ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano più il giovane si vantava di quel suo cuore meraviglioso.
All'improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse : "Beh, a dire il vero... il tuo cuore è molto meno bello del mio."
Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti; Ha!, quel cuore batteva forte, era potente ma era ricoperto di cicatrici.
C'erano zone dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene, così il cuore risultava tutto bitorzoluto ed era anche pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi. Così tutti quanti osservavano il vecchio colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse il più bello. Il giovane guardò com'era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere: "Stai scherzando !", disse. "Confronta il tuo cuore col mio, il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime." "E' vero !", ammise il vecchio.
"Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai cambio col mio. Vedi, nel mio ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore, alla quale ho dato un pezzo del mio cuore, e spesso, ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore. Ma certo ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi e così ho qualche bitorzolo, a cui però sono affezionato, ciascuno mi ricorda l'amore che ho condiviso. Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto e questo ti spiega le voragini.
Amare è rischioso ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l'amore che ho provato anche per queste persone... e chissà ? Forse un giorno ritorneranno e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro. Comprendi adesso che cosa sia il vero amore ?"
Il giovane era rimasto senza parole e lacrime copiose gli rigavano il volto. Allora prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel'offrì con le mani che gli tremavano. Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi ne prese un pezzo rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane. Ci entrava ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo. Poi il vecchio aggiunse:
Se il musicista dicesse che non è la nota musicale che fa la musica...non ci sarebbero le sinfonie….
Se lo scrittore dicesse che non è una parola che può fare uno scritto..non ci sarebbero i libri….
Se l'uomo dicesse che non è un gesto d'amore che può rendere felici e cambiare il destino...non ci sarebbero mai speranza né felicità per gli uomini.
Dopo aver ascoltato, il giovane guardò il suo cuore, che non era più "il cuore più bello del mondo", eppure lo trovava più meraviglioso che mai, perché aveva scoperto dentro di sé un nuovo sentimento.