25 dicembre 2008

Ma quali inverni?


Il mondo cambia e tutti ce ne accorgiamo, anno dopo anno, con l’alternarsi delle stagioni e non abbiamo il bisogno delle statistiche e delle informazioni (sempre sensazionali) che ci propinano i mezzi di comunicazione. Attraverso la televisione o la radio o leggendo i giornali veniamo sommersi da miriadi di notizie,sempre più strane ed estreme, sulle previsioni e situazioni del meteo ad ogni latitudine. Prendiamo ad esempio l’arrivo dell’inverno , tutti gli anni ci ripetono che quello in corso è sempre il più freddo, il più strano o il più diverso, in meglio o in peggio a memoria d’uomo. Ho visto passare parecchi inverni,belli o brutti non so dire quali più di altri, ma quelli di cui meglio mi ricordo ,forse perché per ad ognuno che passava facevo nuove scoperte, sono stati quelli di quando ero bambino. L’inverno allora era molto freddo e sopra tutte le case del paese si vedevano salire le colonne di fumo che uscivano dai camini. Le case si riscaldavano bruciando legna nei camini, carbone nelle stufe, nafta e kerosene nelle caldaie e chissà cos’altro ancora, non si sentiva parlare di ecologia e dei problemi legati all’ambiente, non si pensava nemmeno alle modificazioni che il clima stava subendo. Non c’erano ancora né gli ecologisti arrabbiati, né gli scienziati catastrofici e le comunicazioni di massa erano ancora ad un livello accettabile non si era ancora arrivati al senzazionalismo e all’esasperazione delle notizie a tutti i costi. L’inverno, a quel tempo, portava di solito un sacco di neve, tanta che, mi ricordo, di molte occasioni in cui si è dovuto “fare la rotta” per uscire da casa ed arrivare alla strada. La “rotta” consisteva nell’aprire una strada scavando e rimuovendo l’alta coltre di neve ammonticchiandola ai lati man mano che si procedeva nel creare il corridoio che, partendo dalla porta di casa, arrivava alla strada. Alla pulizia delle strade provvedeva il Comune che reclutava uomini in paese per formare le squadre di spalatori che, con l’ausilio di poche macchine operatrici approntate e adattate per l’occorrenza, rimuovevano la neve per permettere il traffico ai veicoli. In quei freddi inverni noi bambini del paese, non avevamo le preoccupazioni degli adulti e, vuoi per l’incoscienza o per ingenuità o perché avevamo ancora dentro noi quello spirito libero e gioioso che ogni fanciullo possiede finché è tale, riuscivamo a trovare tutti i modi possibili per giocare e divertirci. Nei giorni in cui la neve ricopriva completamente e indistintamente tutto, andavamo all’emporio dalla signora Mafalda a comperare i trappolini per catturare i passeri e gli storni, e siccome lei, da brava negoziante, sapeva quando veniva il momento buono per ogni merce stagionale, da un giorno all’altro comparivano, in bella vista sul bancone del negozio i trappolini, subito dopo la prima nevicata della stagione.Il trappolino altro non era che la versione in miniatura, in filo di ferro armonico, delle trappole a tagliola usate nel passato dai cacciatori, e il fantomatico marchingegno che si componeva di due archetti contrapposti uniti da una robusta molla centrale, era caricato e appoggiato sulla superficie bianca. I due archetti aperti formavano un cerchio che era tenuto aperto dal meccanismo di scatto, pertanto era importante star ben attenti a non farlo scattare e, una volta caricato, il trappolino era appoggiato sulla superficie della neve e con una leggera pressione, fatto scendere fino a scomparire.Veniva cosparsa altra neve sopra in modo da nasconderlo completamente alla vista poi venivano deposte delle briciole di pane in corrispondenza del centro dove c’era il meccanismo di scatto. Con tutta quella neve che ricopriva tutto, agli uccellini non rimaneva niente per cibarsi, quindi erano costretti ad andare a beccare le briciole di pane messe ad arte e, quasi inevitabilmente, quando si appoggiavano sopra al meccanismo di scatto bastava la minima pressione per fare scattare la trappola che in un lampo si chiudeva catturando il volatile. Detta così sembra all’apparenza tutto molto facile, un gioco da ragazzi anzi, da bambini per l’appunto, ma dietro all’arte venatoria nell’uso del famigerato Trappolino c’erano: tempo, passione, audacia, dolore e sudore che non sempre, specie se non miscelati nella giusta misura, facevano del monello neofita un esperto bracconiere. L’inequivocabile segno di riconoscimento del giovane bracconiere alle prime armi erano i segni neri sulle unghie e lividi sulle dita, colpite dall’improvvisa chiusura dell’archetto del trappolino che, maneggiato senza la necessaria perizia, scattava durante il posizionamento imprigionando le dita dell’inesperto trappolinista. Quei segni neri e i lividi la dicevano lunga sul dolore che poteva generare l’archetto di acciaio armonico che, spinto da una molla caricatissima, scattando incontrollato si abbatteva sulle mani già doloranti per il freddo patito nell’armeggiare tra la neve. La piccola trappola una volta carica aveva la forza per catturare, ferendo o uccidendo, dai passeri agli strorni, fino anche ai merli, e il meccanismo di scatto doveva essere sistemato in modo da poter scattare alla più piccola pressione, pertanto la parte più delicata nell’approntare il trappolino, era la carica e posizionamento, che andava fatta con calma, freddezza e precisione cercando di rendere la trappola invisibile e infallibile. Trovato il posto valutato opportuno e proficuo all’attività venatoria si cercava di calpestare il minimo possibile la bianca superficie uniforme, si posizionava il trappolino e si legava la cordina che aveva fissata ad un’estremità, ad un vicino punto fisso e inamovibile. La corda serviva ad evitare che, in caso di una preda di grossa taglia, non potesse scappare anche se prigioniera dell’archetto, poi finita l’operazione si ripartiva per posizionarne altri lungo un percorso che era valutato ogni volta in base all’integrità della superficie ed alla presenza di volatili nei paraggi, alla fine si sarebbe fatto il percorso a ritroso per verificare eventuali catture. Alla fine le catture effettivamente non mancavano ma, vuoi perché alla lunga l’istinto di conservazione teneva passeri e storni alla larga dai trappolini, vuoi perché il freddo e le botte sulle dita assottigliavano le file dei giovani bracconieri, la caccia finiva molto prima delle nevicate. Gli unici a trarne vantaggio erano i pennuti che, essendo animali ma non stupidi, capivano che potevano posarsi ovunque alla ricerca di cibo per il cessato pericolo e la signora Mafalda che, anche per quell’anno, aveva venduto un discreto numero di trappolini. Passate le nevicate le temperature si abbassavano e tutto gelava, ogni superficie si ricopriva di ghiaccio rendendo ogni attività delle persone più difficile e ogni spostamento più pericoloso, le strade venivano cosparse di sale e nelle case si aumentava il riscaldamento . Noi bambini per andare a percorrevamo una stradella in terra battuta, che si snodava tra i prati che stavano in una striscia di terreno tra la strada nazionale e la campagna coltivata, la via più corta e sicura per arrivare. Alla fine del percorso, in prossimità della scuola si risaliva sulla strada nazionale arrampicandosi per la scarpata stradale che era alta sui prati tra due e tre metri a seconda del punto di salita che continuava con paio di sentieri ancor più stretti ma uno più ripido dell’altro. Le gelate notturne avevano formato lastroni di ghiaccio lungo tutto il percorso della stradella ed in particolare sui due sentieri che risalivano per la scarpata stradale dove, noi ragazzini, avevamo trovato il modo di giocare. Nei sentieri si susseguivano sfide continue di slittino nei momenti liberi da impegni scolastici ,ci ritrovavamo sulle piste gelate dove ci si lanciava in ardite e a volte pericolose discese, infatti, non mancava, quasi giornalmente, la razione pro capite di lividi, distorsioni e contusioni varie, fino ad arrivare a qualche ferita lacero-contusa e prima della fine delle gelate ci furono anche un paio di ingessature per fratture. Inutile parlare d’indumenti vari strappati al punto da renderli inutilizzabili, di quelli si era perso il conto. Eravamo talmente presi dallo scivolamento su quei sentieri ghiacciati, da inventarci qualsiasi modo e ricorrendo ad ogni mezzo che potesse servire per rendere ancor più emozionante le gare. Ovviamente nessuno disponeva di uno slittino adeguato perciò si provava con tutto ciò che si reputava idoneo allo scopo, perciò assi di lagno, casse per la frutta, lamiere, pneumatici d’auto e tant’altro ancora fu recuperato e usato, tanto nell’estate successiva sul prato si potevano rivedere tutte quelle cose a mucchi tanto da farlo assomigliare più ad una discarica.Cominciammo a fare qualche gara di discesa anche prima dell’entrata a scuola, scoprendo che le cartelle scolastiche, allora di buon cuoio, bene si adattavano al ruolo di slittini, e così un po’ un giorno, prima di entrare, un po’ un altro, anche all’uscita si arrivò ad aumentare i tempi di presenza in pista a scapito di quelli a scuola o a casa, dopo le lezioni.Si andò avanti così fin quasi a marzo fintanto, cioè, che rimase il ghiaccio sui sentieri, poi cominciò il disgelo e le pozzanghere conseguenti che decisero la fine delle nostre settimane bianche.

23 dicembre 2008

Lettera aperta a Babbo Natale


Caro Babbo Natale, ti scrivo per la prima volta, e sento il bisogno di farlo, non per chiederti di ricordarti di me per Natale, ma per scusarmi di non averlo mai fatto prima. Io, per l’età che ho, e di conseguenza per il tipo di educazione ricevuta, e le consuetudini che ancora resistono dai tempi dell’infanzia, non ho avuto il tempo necessario ed il modo giusto per stimarti quanto meriti. Dalle mie parti, in fondo alla pianura, i bambini sono stati abituati ad aspettare con trepidazione l'arrivo della vecchia, in altre parole quello che per molti è solamente il giorno che chiude le festività tra la fine di ogni anno e l’inizio di quello nuovo, quello che per dirla con il proverbio “se le porta tutte via”: l’Epifania. Sebbene cominciasse ad affermarsi già da allora la schiera dei “Natalisti”, in pratica di coloro che facevano trovare, ai loro piccoli i doni e giochi nella Notte Santa, io ero cresciuto in una famiglia che ancora svezzava e cresceva i bambini a pappe e befana. Andava ancora forte la radicata tradizione dei regali portati dalla Befana e noi bambini di quei tempi, con tutto il rispetto per il Bambinello che portava l’amore nel mondo, tendevamo a prediligere la Befana che portava giochi e dolciumi nelle nostre case.

"La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte..." Cominciava così la vecchia filastrocca dedicata alla Befana, e lei era, da sempre, presente nell’immaginazione di noi bambini con l’aspetto di una vecchietta curva e mal in arnese, ma ancora autoritaria e con un caratteraccio da mettere in soggezione anche i più discoli. Nelle nostre fantasie di bambini vedevamo la Befana come nelle immagini dei libri di favole o dai racconti degli adulti che descrivevano la vecchietta coperta di vecchi e logori abiti, mentre tirava un carretto colmo di pacchi, o cavalcando una scopa volante e con un gran sacco sulle spalle. Un anziana signora che nonostante gli acciacchi e anche se già vicina al pensionamento, non si arrendeva, continuava il suo compito con il piglio di sempre e non concedeva sconti, né cedeva a scuse o giustificazioni; Così tutti gli anni ,anno dopo anno arrivava tra il cinque ed il sei gennaio, nel bel mezzo della notte, quando ogni bambino dormiva nel sonno più profondo. Un’altra certezza era quella che non esistevano condizioni climatiche o di traffico tanto difficili da poter a fermare l’anziana nottambula, lei arrivava nelle case sempre e comunque, si faceva aprire con autorità poi, prese le dovute informazioni sul fanciullo ivi domiciliato, procedeva alla verifica. Dalle storie che si tramandavano e continuavano a circolare tra i pargoli, si raccontava che, arrivata nella casa di ogni bambino , cominciasse a sfogliare un enorme librone che si portava appresso, sul quale era annotato com’era stato il comportamento dell’infante durante l’anno appena trascorso: non si poteva sfuggire al giudizio della Befana, quella sapeva tutto e, secondo il suo insindacabile giudizio, avrebbe lasciato giochi e dolci, oppure carbone e castagne secche. Così i bambini la sera del cinque gennaio d’ogni anno, al contrario di tutte le altre, andavano a letto senza fare storie dopo avere esposto in cucina, in bella vista, le loro calze che, come tradizione voleva, sarebbero servite alla Befana come punto di riferimento per le consegne. In pratica e meno poeticamente di quanto raccontato, quella notte, verificato che i figli dormissero, entravano in azione i genitori che tiravano fuori i regali, ben nascosti fino a quel momento, e li deponevano vicino alle calzette.

Il mio ricordo indelebile è fissato nel momento dell'improvviso risveglio, provocato dal trambusto proveniente dalla cucina, che mi faceva scendere di scatto dal letto per correre verso ciò che immaginavo già. Tra il sonno, l'emozione e il timore di trovare chi sa cosa e chi sa chi, mi affacciavo in cucina e c'erano ad accogliermi il babbo e la mamma, mi raccontavano che la Befana era arrivata e aveva chiesto di entrare poi, evase le pratiche burocratiche, aveva consegnato loro quei pacchi che facevano bella mostra tra le calze appese (tra i quali non mancavano mai alcuni simbolici e ammonitori pezzetti di carbone). Infine, prima di ripartire per il suo giro di consegne, aveva preteso un caffè, del quale ancora vi era traccia nella tazzina sul tavolo, poi se n’era andata facendo un gran baccano. Anche se, crescendo, avevo capito che era quel romantico di mio padre ad organizzare quella farsa, mi è sempre piaciuto continuare a credere all'arrivo della vecchietta scorbutica e poco rispettosa del mio riposo, era la fiaba che ogni anno entrava nella realtà, un sogno che si ripeteva dolcissimo. Caro Babbo Natale come vedi ho alle spalle delle esperienze e delle ragioni che spero possano giustificare questa mia minor affezione per te, rispetto a quella per la Signora Epifania e ti chiedo scusa se non sono tantissimi anni che ho cominciato a rivalutare la tua imponente ma importante figura. Ti posso assicurare che nel tempo, il succedersi dei Natali nella mia vita prima da figlio prima, poi da genitore, mi ha insegnato a voler bene alla tua rassicurante e bonaria presenza, a conoscerti meglio e stimarti di più, e poi sai com’è, tra uomini ci si capisce. Spero tanto che tu non me ne voglia se continuo a riservare le mie attenzioni, prima, alla cara vecchietta e poi a te, ma credo che, oltre ad essere un grande vecchio, tu sia un gran Signore, che può capire e condividere con me un po’ di galanteria verso una simpatica matura signora. Con grande affetto ti saluto ricordandoti, come faccio sempre con la dolce cara Befana, di prestare attenzione nel tuo viaggio notturno della notte di Natale. Questo nostro mondo, man mano che passano gli anni, diventa sempre più confuso e pericoloso e non vorrei che ti succedesse qualche cosa che possa, anche solo minimamente, intaccare la sicurezza dei bambini sulla tua costante presenza nelle loro notti di Natale.

15 dicembre 2008

Al Trivio, Rovereto


Il locale è di quelli che vanno tanto da un po di tempo in quà, stà in un posto strategico del centro storico, in un angolo di una piazzetta, nascosto in grande evidenza.
Però la piazzetta è tra le più conosciute, carica di storia per il paese, un angolo di ritrovo per i giovani in evidenza e i meno giovani evidenti.
C'è anche tanto di monumento: un bel proietto da 380mm italiano della prima guerra mondiale e sotto la lapide che riporta il numero delle case distrutte durante quegli anni.
Non grande all'interno anche se su più piani, arredo moderno, piccolo banco bar con esposizione di liquori da capogiro per la ricercatezza, tavolo a parte con i vini aperti perché si può ordinare anche al bicchiere ,vini di nome: più o meno gli stessi che fanno bella mostra in tutti i locali come questo.
La cameriera che accoglie e spoglia dopo aver verificato dalla dirigente o proprietaria :comunque caposala: pochi attimi di dubbio poi la conferma che potevamo accomodarci in uno dei quattro tavoli liberi sugli otto presenti a quel piano.
La caposala porta i (grandi) menù ,piatti unici,piatti assaggio e lista specialità; ci attira il risotto al radicchio e formaggio che si fa solo per due ,(bene; siamo in due) e che ordiniamo quando torna ma :
Scusate se non vi ho detto prima che il risotto non è possibile farlo perchè abbiamo una comitiva di 24 persone e poi la cucina sta per chiudere (alle 13 e 30?) .
allora un opterei per......non mi lascia finire la frase.
Non voglio sembrare invadente (ha no!) ma vi consiglio il piatto unico con un primo e un secondo insieme .
sguardo tra il perplesso e il sorpreso :noi; sicuro il suo, sottolineato da oscillazione del capo in segno di : o così o non sò! Vada per il piatto unico.
Acqua e vino ,anche al bicchiere.
Acqua minerale frizzante e un bicchiere di marzemino.
Arriva la cameriera con l'acqua già aperta che, con velocità incredibile, ha già versato nei bicchieri.
Ci guardiamo .. . già aperta , ma neanche a Nairobi!
Arriva la Major con il vino, mostra la bottiglia , non conosco il produttore ma l'assagerò. Se ne va.
Torna con il bicchiere di vino già fatto lo appoggia al tavolo e se ne và.
Ma dai! neanche al dopolavoro ferroviario.
Ed eccolo lì! solito vino barricato che, a parte la forte impronta disegatura di faggio cotta, permette di riconoscere pochi altri gusti, non che non mi piace ma anche qui la moda.
La moda è la masterizzazione dell'enogastronomia d'assalto :tutti sulle barricate!
Il piatto unico arriva in tempo record e non fa mistero del suo viaggio dal frigorifero al tavolo passando per il microonde (porcellana gelata ai bordi ,pietanza da altoforno) non permette che di apprezzarne che la composizione.
Non ci addentriamo nella scelta dei dolci dopo la vista della crema di gelato e spezie del tavolo vicino che dimostra la sua provenienza da freezeer al momento di essere tagliata.
Andiamo direttamente al caffè ben servito con alcuni biscottini, ma in linea con chi lo ha preceduto: bollente, lungo, aroma bruciato .
Vorremmo prenderci il tempo per parlare del nostro e del posto ma e un continuo roteare della cameriera e dell'altra a chiedere se vogliamo altro e se andava tutto bene e se gradiamo non si sà chè, e che cosa e ancora.
Infine sono passate alle vie di fatto, sprarecchiando un pezzo alla volta ,tanto che l'abbiamo preso per un invito a liberare il campo.
Entrata ore 13 e 30 due piatti unici con porzione di tagliata ai ferri ripassata al microonde con giro d'olio ed erbe, 75cc di acqua minerale frizzante, un bicchiere di vino marzemino del trentino ,due caffè accompagnati da alcune scheggie di biscotto , pane e coperto, uscita 14 e 15 , spesa quarantotto euro .
Prendono carte di credito ma perdono clienti :due sicuramente.

12 dicembre 2008

Perchè l'ho cancellato dal mio navigatore


Trento 07-12-2008

Uno dopo l'altro li ho visti tutti nudi e reali: gli alberghi, gli impianti di risalita,i parcheggi,l'ospedale,i servizi pubblici ;anno dopo anno fatti di delusioni che si sommano e infine anche i locali tipici.
Infine anche il mio posto, già, perché dopo aver eletto da anni questo locale come il mio "posto fisso" ogni volta che sono in questa città per lavoro o vacanza (la primavera per il sole,l'estate per il fresco,l'autunno per i funghi,l'inverno per sciare e per le fiere, le sagre, i mercati) ho sbattuto la faccia su un aspetto che non avevo mai conosciuto nè previsto di trovare qui.
Tutte le volte che vengo nel "mio posto fisso",mangio,bevo e ricarico di birra tre bottiglioni tipici del locale con il suo logo e acquistati qui.
Domenica nell'aprire uno dei bottiglioni il tappo si è rotto,un tappo di plastica bianco da pochi centesimi;bè poco male mi dico e dico a chi stava al banco .
-Scusa puoi darmi un'altro tappo?
-noi non abbiamo i tappi-
-Allora(rido) vuoi farmi comperare un'altro bottiglione solo per un tappo o mi fai andare via con il bottiglione aperto?
-noi non diamo solo tappi e riempiamo i bottiglioni che si chiudono-
-Scusa (non rido) perdi la vendita e forse anche il cliente per il valore di un tappo di plastica?
-nessuna risposta ......braccia allargate.
Resto allibito . . .ho capito bene? e sì ho capito bene!
Non abbiamo mangiato, non abbiamo bevuto non abbiamo ricaricato i bottiglioni e credo che, forse ,non avrò più il mio posto fisso in questa città

Sintesi: Tipicità locali? campagna di accoglienza turistica?espressione di un territorio e dei suoi abitanti?
Ma allora non è vero che c'è crisi e dobbiamo essere più disponibili e adattarci alle condizioni di un mercato più difficile ,selettivo che sta perdendo consumatori,e che pertanto di tutto deve essere fatto per tenersi stretti i clienti ,coloro che permettono agli esercizi di sopravvivere.
C'è chi lo ha capito e chi no. Peccato.

01 dicembre 2008

Ode a "la Salamina"












Prima ad védrat int al piat,

o bèla salamina,

at sént int l’aria!...

L’è al tò profùm che, a curóna,

al t’zzircónda come ’na regìna.

Regìna di salàm ti t’jé!...

Délizzia rara,

vant e argój

dla nostra Frara.

Adéss t’jé lì ch’at fum

davanti a mi,

rutundéta e grasstìna,

ligàda strich da tuti i vèrss;

da sóta ad sóra

e anch par travèrss.

T’jé lì ch’at difendi ancóra

cal tesór ch’at gh’a déntar:

al balsam dal tò corp

che, come ’na sgnóra,

t’al fa desideràr…

A n’in póss più!...

At vój magnàr!...

At cucc un puchìn

par guardàrat bén bén;

e pò, pian pianìn,

a t’infilzz còl curtèll

a at vérz a mità:

j òcc i’m ssa slàrga, am tìra al pinguèl, am sùda al palà…

Al sugh tò lusént,

ch’al ’t cóla pr’i fianch,

jè làgarm d’amór

verssàdi par mi.

At ringràzzi, salàma!...

At ringràzzi, col cuór:

al tò sacrifìzzi

t’l’à fat con unór!.