La mitologia greca è
l’insieme dei miti e delle leggende legati alla cultura dell’antica
Grecia. I racconti alla base della mitologia greca nascono tra il IX°
e l’VIII° secolo avanti Cristo e In origine sono trasmessi per via
orale, successivamente vengono raccolti, ampliati e messi per
iscritto. La mitologia classica greca e romana non racconta solo
storie di divinità, ma anche di uomini, spesso protagonisti di
vicende tragiche, alcuni racconti della mitologia sono metafore di
eventi storici. In generale il mondo
della mitologia riflette la natura e la società degli uomini, gli
Dei hanno vizi e difetti tipici dei mortali: sono gelosi,
vendicativi, spesso accecati dalla passione. Tra i tanti personaggi
della mitologia, parleremo di un mito che ha interessato con le sue
vicende il nostro territorio: si tratta di Fetonte, nato da un dio
dell’olimpo, ha attraversato il cielo ed è morto cadendo sulla
terra. Tante sono state le versioni del mito di Fetonte raccontate da
diversi autori tra i filosofi, letterati e storici che parlarono di
Fetonte.
Esiodo, poeta greco che
scrisse tra la fine del 700 e l’inizio del 600 a.c., Erodoto
storico dell’antico mondo greco considerato da Cicerone come il
padre della storia, Euripide drammaturgo greco, considerato tra i
padri delle tragedie greche, Platone filosofo greco, uno dei
fondatori del pensiero filosofico occidentale, Marco Valerio Marziale
poeta romano, Dante Alighieri padre della lingua italiana. Giosuè Carducci,
scrittore e critico letterario, insegnò all’università di Bologna,
fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura e
citò Fetonte nella lirica “Alla città di Ferrara”
“terre pensose in
torvo aëre greve,
su cui perenne
aleggia il mito e cova
leggende e canta a
i secoli querele,
ditemi dove
rovescio, il crin
spiovendogli, dal sole
mal carreggiato (e
candide tendea
al mareggiante
Eridano le braccia)
cadde Fetonte”
Noi ci affidiamo a
quella descritta da Ovidio, poeta romano, tra gli esponenti della
letteratura latina. Publio Ovidio Nasone,
noto semplicemente come Ovidio nacque a Sulmona, in Abruzzo, nel 43
a.C. da famiglia appartenente al rango equestre molto illustre,
trasferitosi a Roma studiò grammatica e retorica presso insigni
maestri. Ovidio è stato
famosissimo nel suo tempo e anche dopo la sua morte, tanto che ne
riprendono i temi e imitano il suo stile moltissimi altri autori. La grande opera di
Ovidio, quella che gli ha dato fama immortale le Metamorfosi, poema
in XV libri terminate nell' VIII° secolo d.c. (periodo augusteo)
dove, in 11.995 versi, ci ha trasmesso le più celebri storie della
mitologia greco-romana descrivendo 250 personaggi mitologici. Il suo modo di fare
poesia Ovidio si allontana dalla compostezza classica egli è
innovatore, improvvisatore e moderno rimanendo comunque un poeta,
Calvino ne esalta la leggerezza e la vivacità espressiva, capace di
rendere sempre in modo plastico tutto ciò che sta accadendo.
Incominciamo con
l’individuare il luogo dove avvenne l’epilogo della nostra storia
che è molto vicino a noi, dove trovò la morte Fetonte. Il Po è il più lungo
fiume d'Italia ma ha uno dei nomi più corti, due sono le lettere per
una sola sillaba, ma al breve nome corrisponde una lunga storia. Partiamo dal nome greco:
Heridanos, che è anche il nome di una costellazione dell'emisfero
celeste australe, ha inizio dalla stella di Orione e si sviluppa da
nord a sud, osservandola ricorda il corso di un fiume con le sue
anse. Torniamo sulla terra,
anzi nell'acqua del nostro fiume, non tutte le fonti storiche e
mitologiche ricollegano l' Eridano al Po, per alcuni coincideva con
il Nilo, per altri con il Rodano, Virgilio nell'Eneide lo cita come
uno dei fiumi degli Inferi, ma la maggior parte degli storici
ricollegano l' Eridano al Po. Ma Cosa significa la
parola Eridano? In greco significa fiume del sole, della luce o del
fuoco, infatti si compone di Ero che si intende come luce, fuoco,
sole e Danos che significa fiume. Se per i greci era l'
Eridano, per i Liguri, popolazione che abitava quella che allora era
la Pianura Padana, era il Bodinco o Bodenco dove il sostantivo Bod
significa mare, lago, laguna o pantano, e inco o enco sta per fiume,
quindi Bodenco sarebbe il fiume-mare o il fiume-palude. Deduzione confermata
dalla conformazione geofisica del Po in epoche antiche, infatti il
tratto finale del fiume era differente dall'attuale, perché si
dirigeva nell'Adriatico attraverso una grande estensione di paludi. Padus è invece il nome
romano del nostro fiume, secondo alcuni il nome Padus deriverebbe dai
numerosi alberi di pino che all'epoca costeggiavano il corso fluviale
e da Padus deriva poi Padana, il nome della pianura dove noi ci
troviamo. E vediamo adesso il
nostro protagonista: Fetonte, questo giovane personaggio della
mitologia greca che da sempre ha incuriosito poeti e scrittori;
Fetonte, un dio caduto sulla terra la cui storia è piena di fascino
come una tragedia greca e stimolante come un giallo. Ma qual è la storia di
Fetonte? Dunque, si narra che fosse il giovane figlio maschio del dio
Febo Elios, che era conosciuto anche come Apollo ed era il Dio del
sole. Apollo, l'infaticabile
pilota di un carro che produceva luce e energia, tirato da cavalli
vomitanti fuoco col quale compiva viaggi quotidiani e aveva una forza
definita divina e paragonabile a quella del sole e con il sole veniva
identificato. Il dio Febo Elio aveva
avuto vari figli e figlie, tra le quali Lampetia "colei che
illumina", Faetusa "la splendente" e Egle "la
luce" esse custodivano le mandrie di Elio in Sicilia, in
un'enorme fattoria che fu saccheggiata da Ulisse e compagni, secondo
il racconto che ce ne fa Omero nell'Odissea. Ma il prediletto era il
giovane maschio Fetonte, avuto dalla ninfa Climene. Tutto ebbe inizio in
Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di
pelle e i loro sovrani erano il re Merope e la regina Oceanina
Climene, la ninfa figlia di Oceano. Accadde un giorno in cui il dio
Apollo fermò in quel luogo il carro durante la sua traversata
quotidiana del cielo, da est a ovest, per dare luce alla Terra. Il dio si imbatté nella
straordinaria bellezza della regina Climene e improvvisamente si
accorse che di lei non poteva fare meno e desiderò amarla, come
detto gli dei cedevano alle forti passioni come gli uomini. Anche la
regina rimase rapita al cospetto del dio il cui nome: Febo significa
appunto “lo splendente”, che tale era e non solo in virtù del
sole che trasportava sul suo famoso carro, ma anche perché era il
dio della poesia e della musica, il dio nel cui aspetto si incarnava
il sublime. Fu così che Apollo e la
regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi cioè le
figlie di Elio (come era chiamato Apollo) e Fetonte. Un precedente
significativo nella vita di Fetonte, lo mette in guardia su quanto
potrà succedergli infatti, anche se meno nota del mito, è l'opera
di un altro cronista del tempo: Nonno di Panopoli, che
racconta la vita di Fetonte prima dell'episodio del carro solare e
dove, ancora infante, giocando con Oceano, fu lanciato più volte in
cielo e ripreso, fino a quando il bambino evitò la mano di Oceano
per cadere nelle acque scure, e fu il presagio della sua futura
fine. Fetonte crebbe lontano
dal padre Apollo, era un figlio illegittimo e fu cresciuto in Etiopia
dalla madre e dal re Merope, che lo aveva adottato e lì aveva una
corte di amici tra cui Epafo, anch'egli figlio illegittimo di un dio,
e che dio! Figlio di Zeus e di Io,
quest'ultima, dopo essere stata amata da Zeus, fu trasformata in
vacca ed errò per tutta la terra, inseguita dalla collera di Era. Trovò infine asilo
sulle rive del Nilo, e qui, riassumendo la sua forma umana, dette
alla luce due figli, Epafo, "il tatto di Zeus", e Ceroessa,
ma per ordine di Era, i Cureti rapirono Epafo, e lo fecero così bene
che Io non riuscì a trovarlo. Zeus uccise i Cureti e
la madre Io si rimise alla ricerca del figlio, venne a sapere che era
stato ritrovato dalla moglie del re di Biblo, in Siria, lo riportò
in Egitto, dove l'allevò e diventato adulto vi vi regnò, succedendo
al padre adottivo Telegono. Le insinuazioni di
questo amico coetaneo furono la causa che avrebbe scatenato un tale
putiferio, infatti Epafo tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione
per la sua ostentazione d'essere figlio di un Dio, che in realtà non
aveva mai visto, mettendo in dubbio che l'amico fosse veramente
figlio del magnifico Apollo.
“ . . . sciocco tu
credi a tutto quello che ti dice tua madre,
e vai in trionfo di
un padre immaginario. “
Scrive Ovidio di come si
espresse Epafo e chiunque a proposito di un tema così importante,
come quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile
affronto e desidererebbe dimostrare a tutti e con qualsiasi mezzo, la
propria identità. Così infatti intese
fare Fetonte che, corso dalla madre e in preda a rabbia mista a
disperazione, la supplicò di dargli le prove e la certezza di essere
figlio di un Dio, del dio Elio; scrive nelle sue Metamorfosi Ovidio:
“ . . . Climene,
non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio
o dall'ira per
essere stata messa sotto accusa
per questo fulgore
splendido di raggi balenanti, che ci vede e ci ode
Io ti giuro, o
figlio, che tu sei nato da questo sole che ti sta di fronte,
da questo sole che
regola la vita sulla terra.
Se quel che dico e
menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo
e sia questo per i
miei occhi l'ultimo giorno.
Levò al cielo tutte
e due le braccia e guardando dritto verso il sole esclamò:
Del resto, non ti ci
vorrà molto a trovare la casa di tuo padre.
Il luogo dove
dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione.
Se così ti aggrada,
vai, e informati da lui direttamente.”
A tali parole Fetonte
non indugiò e, con il cuore ansioso per l'imminente incontro col
padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso l'oriente fino a
che, oltrepassata l'India, giunse finalmente alle porte della
colossale e altissima residenza di Apollo. Era quello un palazzo
interamente rivestito d'oro e Fetonte venne condotto il cospetto del
Dio, ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce
accecante che il padre sprigionava. Ecco come si presentò
la scena a Fetonte secondo il racconto di Ovidio:
“ . . . il sole
sedeva, avvolto in un manto purpureo
su un trono
scintillante di fulgidi smeraldi.
A destra e sinistra
stavano il Giorno e il Mese e l'Anno,
e i Secoli, e le Ore
disposte a uguale distanza una dall'altra;
stava la Primavera
Incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda,
che portava
ghirlande e spighe, e stava L'autunno
imbrattato di uva
calpestata, e l'inverno ghiaccio, con capelli irrigiditi.”
Apollo lo accolse, fiero
di essere il padre di Fetonte, il ragazzo era il simbolo dell'amore
che lo univa a Climene e non gli avrebbe negato nulla pur di
tranquillizzarlo in merito alla sua discendenza. Il giovane però voleva
una prova dal padre, un segno incontrovertibile, un solo desiderio:
essere lui, per un giorno, a dare la luce agli uomini guidando il
carro del sole. Tutto si sarebbe
aspettato Apollo, fuorché una richiesta del genere, tanto
inequivocabile, quanto sconsiderata. Cosa fare? Accontentare
il figlio per tenere fede alla promessa fattagli o rifiutarsi il
nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Apollo
di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in
realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva compiere
e comunque non senza fatica: lui, soltanto lui, nemmeno Giove Il re
degli Dei avrebbe saputo farlo. Mantenere la giusta
traiettoria era compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli
che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li
sapesse domare. Vi erano poi delle
costellazioni minacciose come il Toro, il Leone, il Granchio che
bisognava saper “prendere” per non scatenarne l'ira; ed era
importantissimo approdare a Occidente dopo aver eseguito tutto
secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia
alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si
poteva permettere di sbagliare. Ma gli avvertimenti furono del tutto
inutili: Fetonte non ne voleva sapere e più Apollo tentava di
persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Fin quando, Apollo,
davanti a quegli occhi ancora una volta volta lucidi di rabbia e
amarezza si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il
figlio. Era nel frattempo giunta l'ora di sorgere e nelle Metamorfosi
leggiamo:
“ -Se puoi seguire
almeno questi consigli di tuo padre,
evita ragazzo mio,
di spronare e serviti piuttosto delle briglie.
Già tendono a
correre di suo: è difficile e frenare la loro foga.
E cerca di non
tagliare direttamente le cinque zone del Cielo.
C'è una pista che
si snoda obliquamente, con una gran curvatura,
e resta compreso tra
le sole zone senza toccare né il polo stradale,
né l'orsa dalla
parte dell'Aquilone. Passa di lì;
Vedrai chiaramente
le tracce delle ruote.
E perché il cielo e
la terra ricevano pari giusto calore,
non spingere in
basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo.
Spostandoti troppo
verso l'alto, bruceresti le dimore celesti;
Verso il basso, la
terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.
E bada che le ruote
non pieghino troppo a destra, verso il serpente contorto,
O non ti conducano
troppo a sinistra, giù verso l'Altare.
Tieniti fra l'uno e
l'altro. Per il resto mi affido alla Fortuna,
che ti aiuti e pensi
a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare tu stesso.
Mentre parlo, la
Notte umida ha toccato la meta, segnata sulle coste di Ponente.
Non ci è permesso
indugiare, tocca a noi: l'Aurora, scacciate le tenebre, risplende.”
Fetonte salito sul
cocchio lo fece partire, ma è troppo emozionato e ansioso di
compiere la sua corsa sul carro del Sole e ascolta distratto e di
tutti i suggerimenti paterni nemmeno uno fece in tempo a seguire, non
appena i cancelli si aprirono. Infatti i cavalli (Eòo,
Etone, Flegone, Piroide) si lanciarono all'impazzata, come ogni
giorno, nel cielo immenso e subito si accorsero che l'auriga non era
quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non
avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro
sobbalzò e sbandò. Fetonte fu preso dal panico e non sapeva come
tenere i cavalli, così descrive Ovidio quella scena:
“ . . . Allora per
la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa ,
la quale cercò,
invano, di immergersi nel mare ad essa vietato
ed il serpente, che
si trova vicino al polo glaciale
e che è la prima
era intorpidito dal freddo non faceva paura nessuno
si riscaldò e a
quel bollore fu preso da una furia mai vista.
Raccontano che anche
tu disturbato fuggisti, Boote,
benché fossi lento
ed impacciato dal carro tuo.
quando poi
l'infelice Fetonte si volse a guardare dall'alto nel cielo
la terra che si
stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì,
e un improvviso
sgomento gli fece tremare le ginocchia,
e in mezzo a tutto
quello luce un velo di tenebra di cagliò sugli occhi.”
Fetonte era sconvolto,
impotente in balia dei cavalli impazziti nella foga della corsa, si
pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua
sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi. I cavalli lo trascinavano
in una folle corsa nel fuoco, senza avere la minima idea di dove
stessero andando e così si avventurarono prima troppo in alto, fino
a costare contro le regioni più lontane, poi troppo in basso,
vicinissime alla terra, che divenne tutto ad un tratto una trappola
incandescente. Passando così vicino
alla Terra tutto arse e dove c'erano grandi delle foreste si
formarono dei grandi deserti e i grandi fiumi si prosciugarono.
Quella traversata disastrosa avrebbe cambiato per sempre i connotati
della madre terra dando a determinati tratti le sembianze che
conosciamo oggi. Fu allora che il popolo
degli etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, dovuto
all'eccessivo calore, divenne di colore nero e fu allora che la
Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto e del Nilo non
si trovarono più le sorgenti. Lo sconvolgimento non fu
soltanto della geografia terrestre ma anche della gerarchia cosmica,
che fu del tutto sovvertita, tanto che per la prima volta la luce del
sole giunse là dove era proibito illuminare: il regno dei morti. Secondo Diodoro Siculo,
quando Fetonte non fu più in grado di tenere le redini, il carro del
Sole cambiò il percorso abituale e, prima di avvicinarsi
pericolosamente alla terra attraversò i cieli incendiandoli e fu
allora che tra gli astri si formò la Via Lattea. Superfluo è raccontare
ciò che accade al mare e ai suoi pesci: l'acqua era in gran parte
del evaporata e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini,
stavano scomparendo per sempre, inghiottite dal fuoco e dal suo
calore. Ma Gaia, questo era il
nome della madre terra, questo non poteva subirlo e così in uno
sforzo al limite delle sue energie implorò Giove affinché mettesse
fine a quella maledizione e il re degli dei intervenne, questo è
come ce lo racconta Ovidio:
“ . . . Allora il
padre onnipotente (Giove) chiamati a testimone gli dei (compreso
il sole, che aveva prestato il carro)
che tutto sarebbe
perito di morte crudele se non interveniva,
salì in cima alla
rocca da cui suole falcare sulla terra i banchi di nubi,
da cui fare
rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori
. . . . . .
Tuonò e librato un
fulmine all'altezza dell'orecchio destro,
lo lanciò contro il
Cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita
e arrestando
l'incendio con una spietata fiatata.
. . . . . . .
Fetonte, con la
fiamma che divora i capelli rosseggianti,
precipita su se
stesso e lascia per aria una lunga scia,
come a volte Una
stella può sembrare che cada,
anche se non cade,
giù dal cielo sereno.
finisce lontano
dalla patria, in un'altra parte del mondo,
del grandissimo Po,
che gli deterge il viso fumante. “
Viene narrato che oltre
a Gaia o Gea e agli Dei, anche la madre di Fetonte pregò Zeus di
porre fine a quel grande disastro cosmico e lui, Giove, prima che la
terra fosse perduta non perse tempo, preparò una delle sue folgori e
la scagliò contro il carro colpendo in pieno il giovane auriga.
Fetonte precipitò in fiamme dal cielo, come una stella cadente e
finì senza vita nelle acque dell' Eridano, già . . . proprio nel
fiume Po. Le naiadi, le ninfe che
presiedono tutte le acque dolci della terra con facoltà guaritrici e
profetiche, gli diedero sepoltura e sulla sua tomba posero questo
epitaffio:
"Hic situs est
Phaethon, currus auriga paterni, quem si non tenuit, magnim tamen
excidit ausis" "
Qui giace Fetonte,
auriga del cocchio di suo padre; e anche se non seppe guidarlo, egli
cadde tuttavia tentando una grande impresa. Secondo gli studi degli
antichi scritti sono stati individuati i probabili punti lungo l'
Eridano, dove Fetonte potrebbe essere precipitato: uno si trova
all'altezza dell'odierno Crespino (RO) un paese sulla sponda Veneta,
dove sopravvive ancora questa leggenda e da cui nasce la
denominazione della piazza principale. Inoltre Il comune di Crespino,
in Provincia di Rovigo, ha come stemma lo scudo araldico che
riproduce il mito di Fetonte. Un altro punto viene
individuato non molto distante ma più a ovest, nel tratto del fiume
in provincia di Ferrara, tra i borghi rivieraschi di Pontelagoscuro,
l'antico Lago oscuro che richiama il luogo generato dalla caduta di
Fetonte e Francolino dove troviamo una piazza intitolata a Fetonte. Questa localizzazione
trova un riscontro nelle Argonautiche il poema epico in greco antico
scritto da Apollonio Rodio nel III secolo a.C.. Unico poema di età
ellenistica sopravvissuto, racconta delle avventure del principe
Giasone e degli altri eroi salpati a bordo della nave Argo alla
ricerca del vello d’oro, la pelle di un mitico ariete dorato,
nascosto nella Colchide. La narrazione copre un
arco di spazio e di tempo enorme, dalla partenza della nella Grecia
orientale, fino alla conquista del vello, sulle sponde più ad est
del Mar Nero, coprendo infine il viaggio di ritorno degli eroi,
costretti a navigare all’interno del continente europeo. Passeranno per le sponde
dell’Italia adriatica dove Eracle fondò la odierna Eraclea e
risalirono la foce dell’Eridanus. Fino dai tempi delle
grandi migrazioni greche (circa 1500- 1000 a . C.) rappresentò
l’unico passaggio commerciale alla pianura padana e all’Europa
continentale, che fosse accessibile ai Greci, i quali erano
fortemente interessati al commercio dell’ambra (elettro) erano
infatti localizzate presso la foce dell'Eridano le isole Elettridi
dove si faceva la raccolta dell'ambra tanto che in Grecia la migliore
veniva chiamata “electrum eridanium”. La valle del Po era
l’ultimo tratto dell'antica via dell’ambra, sacra al Sole, che
correva dal Baltico al Mediterraneo. Risalendo il fiume
Eridano passarono in un punto dove il fiume formava una zona paludosa
e insalubre chiamata successivamente il lago oscuro. In quel luogo,
raccontano, dove ancora giaceva il corpo fumante di Fetonte, i cui
miasmi avvelenavano addirittura gli uccelli e da cui nacque
l’espressione ‘fetido’ o ‘fetente’. Un altro accenno al mito
dio Fetonte ci viene da un passo di Polibio, che ci dice che i primo
abitatori delle zone ferraresi usavano un vestito nero in segno di
lutto per la caduta di Fetonte. Ritenuto per certo che la veste
abituale dei Greci era bianca, quando questi arrivarono vi
sovrapposero il lutto e si ottennero i due colori (bianco e nero) da
cui derivò la forma della balzana (scudo gotico diviso in due parti)
che è l'antico stemma del Comune di Ferrara.
Fetonte, Eridano, le
Eliadi e più in generale tutto l’episodio narrato dalle
Metamorfosi rappresentavano un leitmotiv della corte Estense, una
tematica ricorrente all’epoca del dominio ducale sul territorio. Numerose sono le opere
realizzate in questo contesto che esaltano la padanità del racconto
ovidiano con diversi tipi di rappresentazione. Il mito di Fetonte si
lega agli Este fin dal 1242, anno in cui (secondo una cronaca di
Ferrara) Azzo d’Este commissionò un dipinto che prevedeva come
soggetto proprio la storia ovidiana, trattata ricollegandosi alla
tradizione classica del mito e non a quella più moraleggiante in
voga in quel periodo. Questa fu la tragica
fine della breve vita di Fetonte che volle guidare il carro del sole,
ma la storia non finisce qui, nonostante l'accaduto nessuno odiò mai
quel ragazzo e sia il padre, che la madre, le sorelle e le Ninfe, le
Eliadi, lo piansero a lungo ai bordi delle rive del fiume. In quella circostanza
accade che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che
da allora lo accompagnano nel suo lungo il tragitto. Fino ad allora le rive
erano spoglie, ma in quei giorni, mentre le sorelle si battevano il
petto in un pianto ininterrotto, il loro corpi si trasformarono in
alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero
verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre
e annunciarle l'inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò
per sempre anche della parola e allora dal legno fuoriuscirono
lacrime. Giove allora trasformò
quelle lacrime nella sostanza nuova, l'ambra, che al calore del sole
s'indurì e cadendo nel fiume venne trasportata dalla corrente e
nelle acque della foce del Po formarono alcune isole, dette
"Elettridi". Le metamorfosi non
risparmiarono altri personaggi convolti nella narrazione e si
estesero anche ad un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava
piangendo in riva al Po l'audace figlio del Sole.
Cicno, il re dei liguri,
piangeva disperato la fine dell'amico Fetonte e invocò la pietà di
Apollo perché placasse il suo dolore e il Dio lo trasformò in un
meraviglioso uccello, mai esistito fino a quel momento: un cigno e lo
dotò di una voce melodiosa.
Di fronte a una favola
tanto coinvolgente l'arte non poteva mancare l'appuntamento, infatti
la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che,
oltre ad avere una sostanziosa risorsa da cui attingere per
manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso
l'arte a cose conduce la superbia umana, quando pretende di misurarsi
con la potenza Divina. Un'altra interpretazione
fu quella della rovina a cui andò incontro il giovane sprezzante che
disdegnò i consigli di chi era più vecchio e aveva più esperienza
di lui, in questo caso il padre Apollo. C'è chi vede nel mito
di Fetonte la trasposizione di fenomeni meteorologici e astronomici o
anche il ricordo collettivo di catastrofi naturali: Fetonte è il
sole che ogni sera precipita nel mare a occidente rischiarando
l'orizzonte con il bagliore di un incendio. Secondo gli storici e
gli archeologi la leggenda andrebbe ambientata nella pianura del Po e
sarebbe legata alla via dell'ambra, che dalla pianura Padana risaliva
al Baltico.
Così la vicenda di
Fetonte e delle sorelle Eliadi dalle lacrime di Ambra, si è caricata
di riferimenti topografici, umani e folkloristici e ha conosciuto
oltre allo sviluppo culturale anche la tradizione orale. La leggenda di Fetonte
ha ispirato nell'antichità classica molti artisti con quadri,
affreschi, mosaici, sculture e tante altre opere e divenendo, dal
Medioevo, anche un elemento della simbologia funeraria, scegliendo
questa leggenda per decorare le tombe delle vittime di incidenti.
C'è chi ha colto il nesso tra il mito e la prospettiva platonica e
stoica della distruzione ciclica della terra al termine di ogni
periodo cosmico. Vario è l'atteggiamento
dei poeti latini nei confronti di questo mito, da Lucrezio a Plinio
il Vecchio i riferimenti alla leggenda di Fetonte sono frequenti e
legati alla suggestiva grandiosità della vicenda; ma il mito assume
anche un doppio simbolo: morale e personale. Fetonte è il figlio che
si rivolta contro il padre o, più generalmente, è l'orgoglioso che
vuole elevarsi troppo in alto e perciò è punito anche se, a
giudizio di alcuni autori, questo suo coraggio è eroico e
ammirevole. La lezione morale è indicata da Ovidio stesso:
“ . . . è un
castigo, Fetonte, quello che tu invochi come favore.
Mostra più saggezza
nei tuoi desideri.”
Ma poi l'ammirazione del poeta verso quel giovane che considera come
un eroe viene espressa nell'epigrafe finale:
“ . . . qui giace
Fetonte, che volle condurre il carro Paterno.
Se non fu capace di
farlo, almeno morì vittima di una nobile audacia.”
La mitologia greca ha
espresso magistralmente, attraverso figure universali come quella di
Fetonte, come la presunzione e l’arroganza alla fine si ritorcano
contro l’individuo e la società, da cui l'insegnamento che per
possedere qual cosa di grande valore bisogna esserne degni. Noi qui vediamo le
conseguenze di un desiderio incontrollato: Fetonte è più colpevole
di Icaro, che non resiste al volo e sale fino ad avvicinarsi al sole
che scioglierà la cera delle ali incollate: No. Fetonte vuole
guidare il carro del Sole per dimostrare che è figlio del Sole, che
è divino. Non è amore del cielo e
del volo che lo anima e guida; è superbia da adolescente, come gli
adolescenti che protetti dai genitori accusano gli insegnanti
colpevoli di non capirli, e, addirittura, rimproverarli, cercando di
orientarli al viaggio sulla terra, lasciando a chi ne è all’altezza
quello nel cielo. Questo adolescente, e il
suo padre cedevole per senso di colpa, che rinuncia al suo dovere di
padre sentendosi un cattivo padre, mandano il mondo in rovina. Sarà
la Terra, che è una donna, a recuperare, a salvare il pianeta, a
riportare la vita.