10 aprile 2024

Fetonte: breve storia di un mito

 


La mitologia greca è l’insieme dei miti e delle leggende legati alla cultura dell’antica Grecia. I racconti alla base della mitologia greca nascono tra il IX° e l’VIII° secolo avanti Cristo e In origine sono trasmessi per via orale, successivamente vengono raccolti, ampliati e messi per iscritto. La mitologia classica greca e romana non racconta solo storie di divinità, ma anche di uomini, spesso protagonisti di vicende tragiche, alcuni racconti della mitologia sono metafore di eventi storici. In generale il mondo della mitologia riflette la natura e la società degli uomini, gli Dei hanno vizi e difetti tipici dei mortali: sono gelosi, vendicativi, spesso accecati dalla passione. Tra i tanti personaggi della mitologia, parleremo di un mito che ha interessato con le sue vicende il nostro territorio: si tratta di Fetonte, nato da un dio dell’olimpo, ha attraversato il cielo ed è morto cadendo sulla terra. Tante sono state le versioni del mito di Fetonte raccontate da diversi autori tra i filosofi, letterati e storici che parlarono di Fetonte.

Esiodo, poeta greco che scrisse tra la fine del 700 e l’inizio del 600 a.c., Erodoto storico dell’antico mondo greco considerato da Cicerone come il padre della storia, Euripide drammaturgo greco, considerato tra i padri delle tragedie greche, Platone filosofo greco, uno dei fondatori del pensiero filosofico occidentale, Marco Valerio Marziale poeta romano, Dante Alighieri padre della lingua italiana. Giosuè Carducci, scrittore e critico letterario, insegnò all’università di Bologna, fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura e citò Fetonte nella lirica “Alla città di Ferrara”

“terre pensose in torvo aëre greve,

su cui perenne aleggia il mito e cova

leggende e canta a i secoli querele,

ditemi dove

rovescio, il crin spiovendogli, dal sole

mal carreggiato (e candide tendea

al mareggiante Eridano le braccia)

cadde Fetonte”

Noi ci affidiamo a quella descritta da Ovidio, poeta romano, tra gli esponenti della letteratura latina. Publio Ovidio Nasone, noto semplicemente come Ovidio nacque a Sulmona, in Abruzzo, nel 43 a.C. da famiglia appartenente al rango equestre molto illustre, trasferitosi a Roma studiò grammatica e retorica presso insigni maestri. Ovidio è stato famosissimo nel suo tempo e anche dopo la sua morte, tanto che ne riprendono i temi e imitano il suo stile moltissimi altri autori. La grande opera di Ovidio, quella che gli ha dato fama immortale le Metamorfosi, poema in XV libri terminate nell' VIII° secolo d.c. (periodo augusteo) dove, in 11.995 versi, ci ha trasmesso le più celebri storie della mitologia greco-romana descrivendo 250 personaggi mitologici. Il suo modo di fare poesia Ovidio si allontana dalla compostezza classica egli è innovatore, improvvisatore e moderno rimanendo comunque un poeta, Calvino ne esalta la leggerezza e la vivacità espressiva, capace di rendere sempre in modo plastico tutto ciò che sta accadendo.

Incominciamo con l’individuare il luogo dove avvenne l’epilogo della nostra storia che è molto vicino a noi, dove trovò la morte Fetonte. Il Po è il più lungo fiume d'Italia ma ha uno dei nomi più corti, due sono le lettere per una sola sillaba, ma al breve nome corrisponde una lunga storia. Partiamo dal nome greco: Heridanos, che è anche il nome di una costellazione dell'emisfero celeste australe, ha inizio dalla stella di Orione e si sviluppa da nord a sud, osservandola ricorda il corso di un fiume con le sue anse. Torniamo sulla terra, anzi nell'acqua del nostro fiume, non tutte le fonti storiche e mitologiche ricollegano l' Eridano al Po, per alcuni coincideva con il Nilo, per altri con il Rodano, Virgilio nell'Eneide lo cita come uno dei fiumi degli Inferi, ma la maggior parte degli storici ricollegano l' Eridano al Po. Ma Cosa significa la parola Eridano? In greco significa fiume del sole, della luce o del fuoco, infatti si compone di Ero che si intende come luce, fuoco, sole e Danos che significa fiume. Se per i greci era l' Eridano, per i Liguri, popolazione che abitava quella che allora era la Pianura Padana, era il Bodinco o Bodenco dove il sostantivo Bod significa mare, lago, laguna o pantano, e inco o enco sta per fiume, quindi Bodenco sarebbe il fiume-mare o il fiume-palude. Deduzione confermata dalla conformazione geofisica del Po in epoche antiche, infatti il tratto finale del fiume era differente dall'attuale, perché si dirigeva nell'Adriatico attraverso una grande estensione di paludi. Padus è invece il nome romano del nostro fiume, secondo alcuni il nome Padus deriverebbe dai numerosi alberi di pino che all'epoca costeggiavano il corso fluviale e da Padus deriva poi Padana, il nome della pianura dove noi ci troviamo. E vediamo adesso il nostro protagonista: Fetonte, questo giovane personaggio della mitologia greca che da sempre ha incuriosito poeti e scrittori; Fetonte, un dio caduto sulla terra la cui storia è piena di fascino come una tragedia greca e stimolante come un giallo. Ma qual è la storia di Fetonte? Dunque, si narra che fosse il giovane figlio maschio del dio Febo Elios, che era conosciuto anche come Apollo ed era il Dio del sole. Apollo, l'infaticabile pilota di un carro che produceva luce e energia, tirato da cavalli vomitanti fuoco col quale compiva viaggi quotidiani e aveva una forza definita divina e paragonabile a quella del sole e con il sole veniva identificato. Il dio Febo Elio aveva avuto vari figli e figlie, tra le quali Lampetia "colei che illumina", Faetusa "la splendente" e Egle "la luce" esse custodivano le mandrie di Elio in Sicilia, in un'enorme fattoria che fu saccheggiata da Ulisse e compagni, secondo il racconto che ce ne fa Omero nell'Odissea. Ma il prediletto era il giovane maschio Fetonte, avuto dalla ninfa Climene. Tutto ebbe inizio in Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di pelle e i loro sovrani erano il re Merope e la regina Oceanina Climene, la ninfa figlia di Oceano. Accadde un giorno in cui il dio Apollo fermò in quel luogo il carro durante la sua traversata quotidiana del cielo, da est a ovest, per dare luce alla Terra. Il dio si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene e improvvisamente si accorse che di lei non poteva fare meno e desiderò amarla, come detto gli dei cedevano alle forti passioni come gli uomini. Anche la regina rimase rapita al cospetto del dio il cui nome: Febo significa appunto “lo splendente”, che tale era e non solo in virtù del sole che trasportava sul suo famoso carro, ma anche perché era il dio della poesia e della musica, il dio nel cui aspetto si incarnava il sublime. Fu così che Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi cioè le figlie di Elio (come era chiamato Apollo) e Fetonte. Un precedente significativo nella vita di Fetonte, lo mette in guardia su quanto potrà succedergli infatti, anche se meno nota del mito, è l'opera di un altro cronista del tempo: Nonno di Panopoli, che racconta la vita di Fetonte prima dell'episodio del carro solare e dove, ancora infante, giocando con Oceano, fu lanciato più volte in cielo e ripreso, fino a quando il bambino evitò la mano di Oceano per cadere nelle acque scure, e fu il presagio della sua futura fine. Fetonte crebbe lontano dal padre Apollo, era un figlio illegittimo e fu cresciuto in Etiopia dalla madre e dal re Merope, che lo aveva adottato e lì aveva una corte di amici tra cui Epafo, anch'egli figlio illegittimo di un dio, e che dio! Figlio di Zeus e di Io, quest'ultima, dopo essere stata amata da Zeus, fu trasformata in vacca ed errò per tutta la terra, inseguita dalla collera di Era. Trovò infine asilo sulle rive del Nilo, e qui, riassumendo la sua forma umana, dette alla luce due figli, Epafo, "il tatto di Zeus", e Ceroessa, ma per ordine di Era, i Cureti rapirono Epafo, e lo fecero così bene che Io non riuscì a trovarlo. Zeus uccise i Cureti e la madre Io si rimise alla ricerca del figlio, venne a sapere che era stato ritrovato dalla moglie del re di Biblo, in Siria, lo riportò in Egitto, dove l'allevò e diventato adulto vi vi regnò, succedendo al padre adottivo Telegono. Le insinuazioni di questo amico coetaneo furono la causa che avrebbe scatenato un tale putiferio, infatti Epafo tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione d'essere figlio di un Dio, che in realtà non aveva mai visto, mettendo in dubbio che l'amico fosse veramente figlio del magnifico Apollo.

“ . . . sciocco tu credi a tutto quello che ti dice tua madre,

e vai in trionfo di un padre immaginario. “

Scrive Ovidio di come si espresse Epafo e chiunque a proposito di un tema così importante, come quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile affronto e desidererebbe dimostrare a tutti e con qualsiasi mezzo, la propria identità. Così infatti intese fare Fetonte che, corso dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli le prove e la certezza di essere figlio di un Dio, del dio Elio; scrive nelle sue Metamorfosi Ovidio:

“ . . . Climene, non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio

o dall'ira per essere stata messa sotto accusa

per questo fulgore splendido di raggi balenanti, che ci vede e ci ode

Io ti giuro, o figlio, che tu sei nato da questo sole che ti sta di fronte,

da questo sole che regola la vita sulla terra.

Se quel che dico e menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo

e sia questo per i miei occhi l'ultimo giorno.

Levò al cielo tutte e due le braccia e guardando dritto verso il sole esclamò:

Del resto, non ti ci vorrà molto a trovare la casa di tuo padre.

Il luogo dove dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione.

Se così ti aggrada, vai, e informati da lui direttamente.”

A tali parole Fetonte non indugiò e, con il cuore ansioso per l'imminente incontro col padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso l'oriente fino a che, oltrepassata l'India, giunse finalmente alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo. Era quello un palazzo interamente rivestito d'oro e Fetonte venne condotto il cospetto del Dio, ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce accecante che il padre sprigionava. Ecco come si presentò la scena a Fetonte secondo il racconto di Ovidio:

“ . . . il sole sedeva, avvolto in un manto purpureo

su un trono scintillante di fulgidi smeraldi.

A destra e sinistra stavano il Giorno e il Mese e l'Anno,

e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza una dall'altra;

stava la Primavera Incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda,

che portava ghirlande e spighe, e stava L'autunno

imbrattato di uva calpestata, e l'inverno ghiaccio, con capelli irrigiditi.”

Apollo lo accolse, fiero di essere il padre di Fetonte, il ragazzo era il simbolo dell'amore che lo univa a Climene e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzarlo in merito alla sua discendenza. Il giovane però voleva una prova dal padre, un segno incontrovertibile, un solo desiderio: essere lui, per un giorno, a dare la luce agli uomini guidando il carro del sole. Tutto si sarebbe aspettato Apollo, fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile, quanto sconsiderata. Cosa fare? Accontentare il figlio per tenere fede alla promessa fattagli o rifiutarsi il nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Apollo di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva compiere e comunque non senza fatica: lui, soltanto lui, nemmeno Giove Il re degli Dei avrebbe saputo farlo. Mantenere la giusta traiettoria era compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li sapesse domare. Vi erano poi delle costellazioni minacciose come il Toro, il Leone, il Granchio che bisognava saper “prendere” per non scatenarne l'ira; ed era importantissimo approdare a Occidente dopo aver eseguito tutto secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si poteva permettere di sbagliare. Ma gli avvertimenti furono del tutto inutili: Fetonte non ne voleva sapere e più Apollo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Fin quando, Apollo, davanti a quegli occhi ancora una volta volta lucidi di rabbia e amarezza si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio. Era nel frattempo giunta l'ora di sorgere e nelle Metamorfosi leggiamo:

“ -Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre,

evita ragazzo mio, di spronare e serviti piuttosto delle briglie.

Già tendono a correre di suo: è difficile e frenare la loro foga.

E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del Cielo.

C'è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura,

e resta compreso tra le sole zone senza toccare né il polo stradale,

né l'orsa dalla parte dell'Aquilone. Passa di lì;

Vedrai chiaramente le tracce delle ruote.

E perché il cielo e la terra ricevano pari giusto calore,

non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo.

Spostandoti troppo verso l'alto, bruceresti le dimore celesti;

Verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.

E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il serpente contorto,

O non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l'Altare.

Tieniti fra l'uno e l'altro. Per il resto mi affido alla Fortuna,

che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare tu stesso.

Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta, segnata sulle coste di Ponente.

Non ci è permesso indugiare, tocca a noi: l'Aurora, scacciate le tenebre, risplende.”

Fetonte salito sul cocchio lo fece partire, ma è troppo emozionato e ansioso di compiere la sua corsa sul carro del Sole e ascolta distratto e di tutti i suggerimenti paterni nemmeno uno fece in tempo a seguire, non appena i cancelli si aprirono. Infatti i cavalli (Eòo, Etone, Flegone, Piroide) si lanciarono all'impazzata, come ogni giorno, nel cielo immenso e subito si accorsero che l'auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte fu preso dal panico e non sapeva come tenere i cavalli, così descrive Ovidio quella scena:

“ . . . Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa ,

la quale cercò, invano, di immergersi nel mare ad essa vietato

ed il serpente, che si trova vicino al polo glaciale

e che è la prima era intorpidito dal freddo non faceva paura nessuno

si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista.

Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote,

benché fossi lento ed impacciato dal carro tuo.

quando poi l'infelice Fetonte si volse a guardare dall'alto nel cielo

la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì,

e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia,

e in mezzo a tutto quello luce un velo di tenebra di cagliò sugli occhi.”

Fetonte era sconvolto, impotente in balia dei cavalli impazziti nella foga della corsa, si pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi. I cavalli lo trascinavano in una folle corsa nel fuoco, senza avere la minima idea di dove stessero andando e così si avventurarono prima troppo in alto, fino a costare contro le regioni più lontane, poi troppo in basso, vicinissime alla terra, che divenne tutto ad un tratto una trappola incandescente. Passando così vicino alla Terra tutto arse e dove c'erano grandi delle foreste si formarono dei grandi deserti e i grandi fiumi si prosciugarono. Quella traversata disastrosa avrebbe cambiato per sempre i connotati della madre terra dando a determinati tratti le sembianze che conosciamo oggi. Fu allora che il popolo degli etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, dovuto all'eccessivo calore, divenne di colore nero e fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto e del Nilo non si trovarono più le sorgenti. Lo sconvolgimento non fu soltanto della geografia terrestre ma anche della gerarchia cosmica, che fu del tutto sovvertita, tanto che per la prima volta la luce del sole giunse là dove era proibito illuminare: il regno dei morti. Secondo Diodoro Siculo, quando Fetonte non fu più in grado di tenere le redini, il carro del Sole cambiò il percorso abituale e, prima di avvicinarsi pericolosamente alla terra attraversò i cieli incendiandoli e fu allora che tra gli astri si formò la Via Lattea. Superfluo è raccontare ciò che accade al mare e ai suoi pesci: l'acqua era in gran parte del evaporata e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottite dal fuoco e dal suo calore. Ma Gaia, questo era il nome della madre terra, questo non poteva subirlo e così in uno sforzo al limite delle sue energie implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione e il re degli dei intervenne, questo è come ce lo racconta Ovidio:

“ . . . Allora il padre onnipotente (Giove) chiamati a testimone gli dei (compreso il sole, che aveva prestato il carro)

che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva,

salì in cima alla rocca da cui suole falcare sulla terra i banchi di nubi,

da cui fare rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori

. . . . . .

Tuonò e librato un fulmine all'altezza dell'orecchio destro,

lo lanciò contro il Cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita

e arrestando l'incendio con una spietata fiatata.

. . . . . . .

Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti,

precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia,

come a volte Una stella può sembrare che cada,

anche se non cade, giù dal cielo sereno.

finisce lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo,

del grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. “

Viene narrato che oltre a Gaia o Gea e agli Dei, anche la madre di Fetonte pregò Zeus di porre fine a quel grande disastro cosmico e lui, Giove, prima che la terra fosse perduta non perse tempo, preparò una delle sue folgori e la scagliò contro il carro colpendo in pieno il giovane auriga. Fetonte precipitò in fiamme dal cielo, come una stella cadente e finì senza vita nelle acque dell' Eridano, già . . . proprio nel fiume Po. Le naiadi, le ninfe che presiedono tutte le acque dolci della terra con facoltà guaritrici e profetiche, gli diedero sepoltura e sulla sua tomba posero questo epitaffio:

"Hic situs est Phaethon, currus auriga paterni, quem si non tenuit, magnim tamen excidit ausis" "

Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; e anche se non seppe guidarlo, egli cadde tuttavia tentando una grande impresa. Secondo gli studi degli antichi scritti sono stati individuati i probabili punti lungo l' Eridano, dove Fetonte potrebbe essere precipitato: uno si trova all'altezza dell'odierno Crespino (RO) un paese sulla sponda Veneta, dove sopravvive ancora questa leggenda e da cui nasce la denominazione della piazza principale. Inoltre Il comune di Crespino, in Provincia di Rovigo, ha come stemma lo scudo araldico che riproduce il mito di Fetonte. Un altro punto viene individuato non molto distante ma più a ovest, nel tratto del fiume in provincia di Ferrara, tra i borghi rivieraschi di Pontelagoscuro, l'antico Lago oscuro che richiama il luogo generato dalla caduta di Fetonte e Francolino dove troviamo una piazza intitolata a Fetonte. Questa localizzazione trova un riscontro nelle Argonautiche il poema epico in greco antico scritto da Apollonio Rodio nel III secolo a.C.. Unico poema di età ellenistica sopravvissuto, racconta delle avventure del principe Giasone e degli altri eroi salpati a bordo della nave Argo alla ricerca del vello d’oro, la pelle di un mitico ariete dorato, nascosto nella Colchide. La narrazione copre un arco di spazio e di tempo enorme, dalla partenza della nella Grecia orientale, fino alla conquista del vello, sulle sponde più ad est del Mar Nero, coprendo infine il viaggio di ritorno degli eroi, costretti a navigare all’interno del continente europeo. Passeranno per le sponde dell’Italia adriatica dove Eracle fondò la odierna Eraclea e risalirono la foce dell’EridanusFino dai tempi delle grandi migrazioni greche (circa 1500- 1000 a . C.) rappresentò l’unico passaggio commerciale alla pianura padana e all’Europa continentale, che fosse accessibile ai Greci, i quali erano fortemente interessati al commercio dell’ambra (elettro) erano infatti localizzate presso la foce dell'Eridano le isole Elettridi dove si faceva la raccolta dell'ambra tanto che in Grecia la migliore veniva chiamata “electrum eridanium”. La valle del Po era l’ultimo tratto dell'antica via dell’ambra, sacra al Sole, che correva dal Baltico al Mediterraneo. Risalendo il fiume Eridano passarono in un punto dove il fiume formava una zona paludosa e insalubre chiamata successivamente il lago oscuro. In quel luogo, raccontano, dove ancora giaceva il corpo fumante di Fetonte, i cui miasmi avvelenavano addirittura gli uccelli e da cui nacque l’espressione ‘fetido’ o ‘fetente’. Un altro accenno al mito dio Fetonte ci viene da un passo di Polibio, che ci dice che i primo abitatori delle zone ferraresi usavano un vestito nero in segno di lutto per la caduta di Fetonte. Ritenuto per certo che la veste abituale dei Greci era bianca, quando questi arrivarono vi sovrapposero il lutto e si ottennero i due colori (bianco e nero) da cui derivò la forma della balzana (scudo gotico diviso in due parti) che è l'antico stemma del Comune di Ferrara.

Fetonte, Eridano, le Eliadi e più in generale tutto l’episodio narrato dalle Metamorfosi rappresentavano un leitmotiv della corte Estense, una tematica ricorrente all’epoca del dominio ducale sul territorio. Numerose sono le opere realizzate in questo contesto che esaltano la padanità del racconto ovidiano con diversi tipi di rappresentazione. Il mito di Fetonte si lega agli Este fin dal 1242, anno in cui (secondo una cronaca di Ferrara) Azzo d’Este commissionò un dipinto che prevedeva come soggetto proprio la storia ovidiana, trattata ricollegandosi alla tradizione classica del mito e non a quella più moraleggiante in voga in quel periodo. Questa fu la tragica fine della breve vita di Fetonte che volle guidare il carro del sole, ma la storia non finisce qui, nonostante l'accaduto nessuno odiò mai quel ragazzo e sia il padre, che la madre, le sorelle e le Ninfe, le Eliadi, lo piansero a lungo ai bordi delle rive del fiume. In quella circostanza accade che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo il tragitto. Fino ad allora le rive erano spoglie, ma in quei giorni, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, il loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l'inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola e allora dal legno fuoriuscirono lacrime. Giove allora trasformò quelle lacrime nella sostanza nuova, l'ambra, che al calore del sole s'indurì e cadendo nel fiume venne trasportata dalla corrente e nelle acque della foce del Po formarono alcune isole, dette "Elettridi". Le metamorfosi non risparmiarono altri personaggi convolti nella narrazione e si estesero anche ad un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l'audace figlio del Sole.

Cicno, il re dei liguri, piangeva disperato la fine dell'amico Fetonte e invocò la pietà di Apollo perché placasse il suo dolore e il Dio lo trasformò in un meraviglioso uccello, mai esistito fino a quel momento: un cigno e lo dotò di una voce melodiosa.

Di fronte a una favola tanto coinvolgente l'arte non poteva mancare l'appuntamento, infatti la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che, oltre ad avere una sostanziosa risorsa da cui attingere per manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso l'arte a cose conduce la superbia umana, quando pretende di misurarsi con la potenza Divina. Un'altra interpretazione fu quella della rovina a cui andò incontro il giovane sprezzante che disdegnò i consigli di chi era più vecchio e aveva più esperienza di lui, in questo caso il padre Apollo. C'è chi vede nel mito di Fetonte la trasposizione di fenomeni meteorologici e astronomici o anche il ricordo collettivo di catastrofi naturali: Fetonte è il sole che ogni sera precipita nel mare a occidente rischiarando l'orizzonte con il bagliore di un incendio. Secondo gli storici e gli archeologi la leggenda andrebbe ambientata nella pianura del Po e sarebbe legata alla via dell'ambra, che dalla pianura Padana risaliva al Baltico.

Così la vicenda di Fetonte e delle sorelle Eliadi dalle lacrime di Ambra, si è caricata di riferimenti topografici, umani e folkloristici e ha conosciuto oltre allo sviluppo culturale anche la tradizione orale. La leggenda di Fetonte ha ispirato nell'antichità classica molti artisti con quadri, affreschi, mosaici, sculture e tante altre opere e divenendo, dal Medioevo, anche un elemento della simbologia funeraria, scegliendo questa leggenda per decorare le tombe delle vittime di incidenti. C'è chi ha colto il nesso tra il mito e la prospettiva platonica e stoica della distruzione ciclica della terra al termine di ogni periodo cosmico. Vario è l'atteggiamento dei poeti latini nei confronti di questo mito, da Lucrezio a Plinio il Vecchio i riferimenti alla leggenda di Fetonte sono frequenti e legati alla suggestiva grandiosità della vicenda; ma il mito assume anche un doppio simbolo: morale e personale. Fetonte è il figlio che si rivolta contro il padre o, più generalmente, è l'orgoglioso che vuole elevarsi troppo in alto e perciò è punito anche se, a giudizio di alcuni autori, questo suo coraggio è eroico e ammirevole. La lezione morale è indicata da Ovidio stesso:

“ . . . è un castigo, Fetonte, quello che tu invochi come favore.

Mostra più saggezza nei tuoi desideri.”

Ma poi l'ammirazione del poeta verso quel giovane che considera come un eroe viene espressa nell'epigrafe finale:

“ . . . qui giace Fetonte, che volle condurre il carro Paterno.

Se non fu capace di farlo, almeno morì vittima di una nobile audacia.”

La mitologia greca ha espresso magistralmente, attraverso figure universali come quella di Fetonte, come la presunzione e l’arroganza alla fine si ritorcano contro l’individuo e la società, da cui l'insegnamento che per possedere qual cosa di grande valore bisogna esserne degni. Noi qui vediamo le conseguenze di un desiderio incontrollato: Fetonte è più colpevole di Icaro, che non resiste al volo e sale fino ad avvicinarsi al sole che scioglierà la cera delle ali incollate: No. Fetonte vuole guidare il carro del Sole per dimostrare che è figlio del Sole, che è divino. Non è amore del cielo e del volo che lo anima e guida; è superbia da adolescente, come gli adolescenti che protetti dai genitori accusano gli insegnanti colpevoli di non capirli, e, addirittura, rimproverarli, cercando di orientarli al viaggio sulla terra, lasciando a chi ne è all’altezza quello nel cielo. Questo adolescente, e il suo padre cedevole per senso di colpa, che rinuncia al suo dovere di padre sentendosi un cattivo padre, mandano il mondo in rovina. Sarà la Terra, che è una donna, a recuperare, a salvare il pianeta, a riportare la vita.

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