Bionde e becere, dietro al vetro
dello sportello al pubblico, si tendevano l’una verso l’altra senza mai
interrompere quello scoppiettante chiacchiericcio, un fitto pigolare modulato
tra bassi sospiri e acute risatine.
Tra un avventore e l’altro o tra
la stampata di un documento e l’altra,
anche solo tra un timbro e l’altro, ma pure tra una digitata e l’altra e tra un
tratto di biro a sigla e l’altra o tra una videata e l’altra, riuscivano a
mantenere quella loro corsia preferenziale, quel legame senza soluzione di
continuità.
Quasi conferenziando in seduta
plenaria sostenevano e alimentavano con argomentazioni di basso profilo e , a
volte con dubbio gusto, senza mai
abbassare la soglia di interesse verso le stesse.
Ma bastava cogliere un raro momento di silenzio, per appropriarsi
della calma necessaria (impresa ardua visto l’ambiente) per concentrarsi
nell’ascolto di loro due soltanto e cogliere il senso di quell’affannosa
intercomunicazione.
Giudiziavano! giudiziavano e
giustiziavano chiunque passava dentro alle loro menti o davanti ai loro occhi,
con equità, senza deroghe e riservando a tutti lo stesso trattamento.
Una, la più bionda e bruttina,
con voce bassa e sempre meravigliata, proponeva con regolare cadenza nomi o
riferimenti precisi a persone e accompagnava ognuno di questi, nel
pronunciarli, con un’espressione dedicata, quasi sempre una sorta di smorfia
che però variava quasi impercettibilmente di caso in caso e ciò anticipava la
critica che si sarebbe imbastita di seguito.
L’altra, tendente al rossiccio e
anonima, agitava le due braccine, dai gomiti alle mani, le cui dita sembravano
antennine disarticolate e roteava, in sincronia con gli arti, il mento, ma con il capo immobile, tanto che quello sembrava quasi indipendente dalla testa
e disegnava ellissi nell’aria.
Le labbra, semichiuse, nel
tentativo di non mostrare il parlottare continuo, lasciavano uscire striduli
versetti incomprensibili che, a giudicare dalle espressioni disarmoniche del
volto, anche l’altra sembrava faticare a comprendere.
Si riuscivano a percepire, tra le tante
emissioni sonore, parole irripetibili, da fare arrossire uno scaricatore di
porto, con tutto il rispetto e senza offesa per la categoria tanto utile,
termini che non ci si aspetta certamente di sentire dalla gentile bocca di una
esponente del gentil sesso e ancor meno in quell’ambiente, pubblico e, per
loro, di livello elevato e degno di doveroso rispetto da parte dei fruitori del servizio pubblico.
A corollario delle argomentazioni
non mancavano raffiche di insulti vari, ben scanditi e sottolineati, con
modulazioni vocali e mimiche facciali appropriate, che andavano tra lo schifato
ed il rabbioso; ma ciò che più meravigliava era il fatto che abbinata a tanta
animosità si conclamasse sempre più il fenomeno strano della fissità degli
occhi.
Le pupille erano fisse ferme
inermi, sembravano finte, delle protesi inerti; quegli occhi parevano capitati
li per caso, piantati in quei visi accidentalmente, privi di luce e di anima.
Strana condizione per un essere
vivente, che fa pensare a chi l’osserva se sia di origine genetica o evolutiva
o solo i sintomi di una patologia rara,
magari indotta dalla situazione in cui si trovavano; o si trovavano in quella
situazione proprio perché dotate di tale caratteristica.
Misteri privati in posti
pubblici, che sono universi a loro stanti e con loro leggi, che si
contrappongono a quelle della fisica e della natura in generale; paradisi per
antropologi e inferni per normali avventori accodati.