06 gennaio 2013

U R P . ops! scusate



Bionde e becere, dietro al vetro dello sportello al pubblico, si tendevano l’una verso l’altra senza mai interrompere quello scoppiettante chiacchiericcio, un fitto pigolare modulato tra bassi sospiri e acute risatine.
Tra un avventore e l’altro o tra la stampata  di un documento e l’altra, anche solo tra un timbro e l’altro, ma pure tra una digitata e l’altra e tra un tratto di biro a sigla e l’altra o tra una videata e l’altra, riuscivano a mantenere quella loro corsia preferenziale, quel legame senza soluzione di continuità.
Quasi conferenziando in seduta plenaria sostenevano e alimentavano con argomentazioni di basso profilo e , a volte con dubbio gusto,  senza mai abbassare la soglia di interesse verso le stesse.
Ma bastava cogliere  un raro momento di silenzio, per appropriarsi della calma necessaria (impresa ardua visto l’ambiente) per concentrarsi nell’ascolto di loro due soltanto e cogliere il senso di quell’affannosa intercomunicazione.
Giudiziavano! giudiziavano e giustiziavano chiunque passava dentro alle loro menti o davanti ai loro occhi, con equità, senza deroghe e riservando a tutti lo stesso trattamento.
Una, la più bionda e bruttina, con voce bassa e sempre meravigliata, proponeva con regolare cadenza nomi o riferimenti precisi a persone e accompagnava ognuno di questi, nel pronunciarli, con un’espressione dedicata, quasi sempre una sorta di smorfia che però variava quasi impercettibilmente di caso in caso e ciò anticipava la critica che si sarebbe imbastita di seguito.
L’altra, tendente al rossiccio e anonima, agitava le due braccine, dai gomiti alle mani, le cui dita sembravano antennine disarticolate e roteava, in sincronia con gli arti, il mento, ma con il capo immobile, tanto che quello sembrava quasi indipendente dalla testa e disegnava ellissi nell’aria.
Le labbra, semichiuse, nel tentativo di non mostrare il parlottare continuo, lasciavano uscire striduli versetti incomprensibili che, a giudicare dalle espressioni disarmoniche del volto, anche l’altra sembrava faticare a comprendere.
Si riuscivano a percepire, tra le tante emissioni sonore, parole irripetibili, da fare arrossire uno scaricatore di porto, con tutto il rispetto e senza offesa per la categoria tanto utile, termini che non ci si aspetta certamente di sentire dalla gentile bocca di una esponente del gentil sesso e ancor meno in quell’ambiente, pubblico e, per loro, di livello elevato e degno di doveroso rispetto da parte dei fruitori del servizio pubblico.
A corollario delle argomentazioni non mancavano raffiche di insulti vari, ben scanditi e sottolineati, con modulazioni vocali e mimiche facciali appropriate, che andavano tra lo schifato ed il rabbioso; ma ciò che più meravigliava era il fatto che abbinata a tanta animosità si conclamasse sempre più il fenomeno strano della fissità degli occhi.
Le pupille erano fisse ferme inermi, sembravano finte, delle protesi inerti; quegli occhi parevano capitati li per caso, piantati in quei visi accidentalmente, privi di luce e di anima.
Strana condizione per un essere vivente, che fa pensare a chi l’osserva se sia di origine genetica o evolutiva o solo i sintomi di una  patologia rara, magari indotta dalla situazione in cui si trovavano; o si trovavano in quella situazione proprio perché dotate di tale caratteristica.
Misteri privati in posti pubblici, che sono universi a loro stanti e con loro leggi, che si contrappongono a quelle della fisica e della natura in generale; paradisi per antropologi e inferni per normali avventori accodati.

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