Un’ultima scarica
di adrenalina, il cuore che smarrisce il ritmo ma ancora non si ferma, la
pressione arteriosa che s’impenna. Poi più nulla. Così muore il cervello, così
si consuma l’ultimo minuto della vita, prima che i medici stabiliscano la morte
cerebrale: un luogo da dove è impossibile tornare. E quel momento non
appartiene a filosofi, teologi, politici, opinionisti: ci sono solo un corpo
già oltre l’agonia, un medico, un respiratore artificiale e una famiglia che
attende l’irreparabile notizia.
Ospedale
Molinette di Torino, reparto di rianimazione. Il professor Pier Paolo Donadio,
primario, racconta l’ultimo minuto della vita di un uomo. Quello che accade
alle cellule cerebrali quando – come la legge stabilisce da 40 anni – vi è la
“cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Le inevitabili
domande: la persona, quando muore il suo cervello, è morta davvero? Com’è
possibile considerare già cadavere un corpo ancora caldo e che respira, anche
se collegato a una macchina? Come chiedere ai parenti il consenso all’espianto
degli organi? È un viaggio dentro un doppio mistero: la fine della vita, la
comprensione della morte dentro un corpo con un cuore che ancora batte.
Forse la morte abita dentro questo schermo di computer
che il professore mostra con delicatezza, voltandolo un po’: è un arcipelago di
isole blu notte, appena cerchiate di un pallido azzurro. “L’azzurro è
l’ossigeno, vede, ormai è solo all’esterno del cervello, tutto il resto non
esiste più″. Da quell’arcipelago non si torna: è la morte cerebrale vista da
una “spect”, vale a dire una scintigrafia (liquido di contrasto, immagine,
verdetto). Il professor Pier Paolo Donadio, primario di anestesia e
rianimazione all’ospedale Molinette di Torino, non ha dubbi: “Io non sono un
filosofo e neppure un teologo, pur essendo un credente. Non so cos’è la morte,
ma so quando è avvenuta. E so cosa dice la legge, per la quale la morte
cerebrale è “cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Una
condizione dalla quale non si riemerge, mai”.
Un
cervello che muore, un corpo che ancora pulsa ma solo perché lo fanno pulsare
le macchine, il respiratore, i farmaci. I parenti che aspettano la risposta
tremenda, un medico che è testimone infallibile, a presidio di quell’ultimo
confine come una sentinella che ha combattuto, più spesso ha vinto (“La
rianimazione è un luogo di vita, qui si salvano sette, otto persone su dieci”)
e qualche volta ha perso. Ma dove abita la morte, professore? “Nel cervello. Il
quale si gonfia, per un trauma o una malattia, e la pressione non lascia più
entrare sangue e ossigeno. Dopo venti minuti circa, le cellule muoiono e
marciscono. L’encefalo si disfa, diventa poltiglia e siamo di fronte a un
cadavere che respira artificialmente, però un cadavere senza dubbio”.
Gli ultimi istanti di una vita sono quasi sempre
preceduti da quella che tecnicamente si chiama “tempesta neurovegetativa”: è il
momento in cui, in un certo senso, il cervello si rifiuta di morire anche se è
già quasi morto. È il punto di non ritorno che il medico rianimatore segue e
accompagna, avendo prima tentato tutto il possibile per evitarlo. “È l’ultima
scarica di adrenalina, manifestata da un picco di segni: alterazione del ritmo
cardiaco, ipertensione, una sorta di estrema codata del pesce ormai quasi senza
ossigeno”. Da lì in avanti si è morti anche se non lo è il cuore, non ancora.
Nell’ufficio del professor Donadio c’è una
macchinetta per l’espresso. “Porto qui i parenti, preparo il caffè e accendo il
computer”. Ecco l’arcipelago della morte blu. “Parlo con loro, spiego con le
immagini e mi rendo conto di quanto sia difficile accettare non dico la fine,
ma la fine di un corpo che è ancora caldo, che sembra solo dormire, che fa la
pipì. Duemila persone sono in quello stato ogni anno in Italia, 200 mila nel
mondo e mai nessuno si è svegliato, perché è impossibile”.
Cosa succede quando il medico deve scostarsi e far
passare la fine? Come la certifica? Come ne prende atto, senza tema di
smentita? “Ogni malattia cerebrale, così come ogni malattia, ha una storia
clinica. Io la conosco e parto da lì. Poi verifico l’assenza di determinati
riflessi. Illumino l’occhio, e la pupilla non si restringe. Tocco la laringe, e
niente tosse. Verso dell’acqua gelata nel timpano, e l’occhio resta immobile.
Oltre, naturalmente, all’assenza di respiro spontaneo. L’osservazione di questi
dati dura sei ore e viene ripetuta per tre volte. Si effettuano gli
elettroencefalogrammi e i riflessi del tronco, lo fanno il rianimatore, il
neurologo e il medico legale. Se è il caso si procede alla scintigrafia, ma
certamente il percorso è segnato. Una cosa diversissima dal coma, dove il
cervello non funziona ma è ancora vivo. Qui, lo ripeto, si tratta di cadaveri”.
Torniamo per un momento davanti alla macchinetta
del caffè. La luce del giorno entra filtrata, qui al terzo piano, nello studio
del primario. Un pacchetto di Gauloises sulla scrivania, le foto della moglie e
dei tre figli alle pareti, un crocifisso, un’icona. Sulle sedie, i parenti di
quel cadavere che ancora respira. Capiranno? Perché in quei momenti si parla
anche di donazione d’organi. “In tutti questi anni non ho trovato un solo
individuo che non abbia capito, poi elaborare il lutto è un’altra faccenda. Mi
chiedono se il loro caro è morto davvero, se è stato fatto il possibile e se
c’è trasparenza nell’assegnazione degli organi, in caso di eventuale donazione.
Le tre risposte sono altrettanti sì. Al massimo, il parente dice: aspettiamo il
miracolo. E io pacatamente rispondo, da credente tra l’altro, che il miracolo
non contempla la resurrezione”.
In quella terra di nessuno che è la vita sospesa,
in realtà una vita già morta che però mantiene alcuni preziosissimi organi, si
inserisce il gigantesco tema dei trapianti. Che in Italia nel 2007 sono stati 3.020,
per un totale di 1.084 donatori. Il dottor Riccardo Bosco, anestesista, è il
responsabile del coordinamento prelievi della regione Piemonte. “Abbiamo una
rete di coordinatori locali, specialisti che si occupano di donazioni e dei
rapporti con le famiglie dei defunti. Prima di tutto, però, conta la
formazione: e noi la facciamo per il nostro personale, compresi i centralinisti
e gli addetti alle pulizie”. Le ultime polemiche sulla morte cerebrale vi
complicheranno il lavoro? “È presto per dirlo. Di sicuro dovremo informare
sempre meglio, usando anche quel grande strumento che è Internet”. Navigando
nel sito “www. donalavita. net” è possibile saperne di più.
“Lo confermo, le persone che puliscono le nostre
sale operatorie sanno perfettamente cos’è la morte cerebrale”. Maurizio
Berardino, camice celeste (è appena salito dal reparto) è il primario di
rianimazione della neurochirurgia delle Molinette. Anche lui, ogni giorno,
sentinella sul confine della morte. “La quale, non ho dubbi, abita là dove non
si può tornare indietro. Il cuore è un muscolo, il cervello è la sede della
nostra identità biologica. La morte cerebrale non ci coglie mai di sorpresa, è
un evento atteso che si sviluppa con passaggi segnati e prevedibili, non è un
arresto cardiaco. Ma questi reparti non sono l’anticamera dell’obitorio, qui si
salvano migliaia di persone e si lotta per garantire la qualità della vita
migliore possibile a chi sarà dimesso. Il vero problema è l’ignoranza, è non
sapere di cosa stiamo parlando. In fondo, la medicina è fatta di cose
semplici”. Ma la morte, dottore, la morte del cervello si vede arrivare? “È
quell’ultima scarica di adrenalina, è quella tempesta. Il problema diventa
raccontarlo alle famiglie, dando loro il tempo di abituarsi all’idea. Spesso
bastano quarantotto ore, altre volte non sarà sufficiente un’intera vita”.
Macchine che soffiano come il respiro, monitor che
pulsano con gentilezza. Ma poi cosa succede, professor Donadio? Come si varca
la soglia ultima, un minuto dopo le sei ore di osservazione? “In quel momento,
il medico è di fronte a un preparato biologico dagli occhi in giù. Faccio
sempre un esempio: quando muore una nonna in corsia, mica si tiene la flebo
nella vena, dopo. Per la morte cerebrale è lo stesso: si staccano i tubi”. A
quel punto, l’ultimo secondo di vita del cervello è già trascorso, non quello
del cuore. “Io spengo il monitor. Perché mi sembra un’inutile agonia anche
visiva, quell’onda elettrica sul monitor che perde il passo”.
Siamo alla fine, adesso sì. “Il cuore, anche senza
il respiro continua a battere di norma per cinque o sei minuti, che nel caso
dei giovani possono diventare venti. Ma quella, da molte ore non era più una
persona viva”. Perché poi l’ultimo passo è sempre il penultimo. Restano ben
vivi coloro che soffrono la perdita. Resta il dovere e il bisogno delle parole
per dirlo, per rispondere e chiarire, per confortare. “Però le persone
capiscono. Io gli voglio bene, ma bene sul serio, e loro lo sanno”.