29 settembre 2008

Ricordi di. . . cucina



La cucina contadina o la “cucina del focolare domestico”, era ricca di sapori naturali, dove le nonne o le mamme dedicavano quasi tutta la giornata a preparare il cibo per tutta la famiglia (a quei tempi, la famiglia era molto numerosa). La giornata, per la donna, iniziava la mattina molto presto con la prima colazione: caffè “nero” (orzo) per gli uomini e caffelatte per i bambini che andavano a scuola. Poi c’erano gli animali da accudire (pollame, maiali) e da preparare qualcosa per il pranzo di mezzogiorno. La pasta veniva fatta in casa e un buon piatto di pasta e fagioli, cotto sulla stufa a legna, saziava la numerosa famiglia. Il secondo, nella cucina contadina era, invece, rappresentato dal “pane quotidiano”, cioè la polenta, che non mancava mai, accompagnata da un bicchiere di clinto. Polenta “infasolà”, salame, cotechino e fagioli schiacciati, alla sera si mangiavano uova condite e pancetta sulla “gradela”.. Gusti che andavano ad esaltare il poco sapore della polenta, durante la settimana erano scarse le varianti; i piatti si ripetevano, ma tutto sommato si trattava di una mensa da benestanti. Scarsa la quantità, ripetitivo il menù, ma estremamente gustoso. La domenica, dopo la messa, era festa grande, perché c’era il risotto con i “figadini”, fatto con il brodo buono, di carne ricavata dagli animali del cortile. Avere un buon pollaio era segno di ricchezza: oche, anatre, tacchini, polli, galline e il “signor maiale” assicuravano il sostentamento e la forza per il lavoro dei campi, da un anno all’altro, la sera del sabato la donna tirava il collo al “ruspante”, attorniata dalla curiosità dei bambini. Poi veniva attaccato alla finestra di casa, come un trofeo da far vedere ai vicini. La tavola imbandita della festa era arricchita da “purè” e dall’immancabile “buzzolà” fatto in casa e cotto nel forno della stufa o sotto il “testo”. C’erano poi le feste della tradizione, legate alla sagra del paese o ad alcune ricorrenze. Tutte avevano la loro caratteristica; la cucina si arricchiva di quel prodotto di stagione o si tagliava “la bondola”, messa da parte per tanti mesi, in attesa della festa giusta, magari con tanto di invitati o con qualche ospite d’eccezione. Per queste occasioni le donne cominciavano i preparativi anche 15 giorni prima: preparavano i “biscottini” che venivano cotti al forno a legna da “Sciavina” o da “Fiaca”. Per S.Andrea, con l’uccisione del “porzelo” si facevano i salami e i “salamini” per i bambini e perché non litigassero, ognuno aveva il suo, più grande o più piccolo, secondo l’età. La “brasola” per il dottore, per il parroco e per le suore era assicurata, anche dalle famiglie più povere.Il resto serviva per fare i salami, quelli grossi, che sarebbero stati tagliati durante la mietitura, mentre quelli piccoli venivano “impitarà” per la conservazione, non essendoci frigo o freezer. La vigilia di Natale, giorno di astinenza e digiuno, era gratificato da un piatto quantomai saporito: “polenta e bacalà”, “bogoni”, “renga” o “sardelon”. Anche qui non poteva mancare la polenta e clinto, quasi a volontà. Oggi il clinto è una rarità, ma, allora, veniva vendemmiato a settembre, lo si “folava” mentre tutta la corte, soprattutto i bambini, erano in festa. Il primo mosto veniva raccolto con la ramina per fare i “siguli”, aggiungendo fiore e farina di granoturco. Erano tutte occasioni di grande divertimento: ci si raccontavano storie attorno al camino, o seduti su sacchi di frumento o di granoturco, fuori, nelle notti d’estate. Oggi invece la gente quasi non si conosce, e se si conosce non si parla e la vita è molto frenetica, così anche la cucina non rappresenta più un momento di cultura e di vita comune, ma sempre più si mangia da soli, a tutte le ore. Solo, dove ci sono persone anziane o nelle piccole comunità, dove i cambiamenti sono più lenti, si possono ancora gustare i sapori di una volta

22 settembre 2008

Uno yankee in cantina



Chi non ha mai sentito parlare del Clinton (non quello che fu presidente degli stati uniti), dell'Uva fragola o del vino Fragolino? Per molti, soprattutto se residenti nel Nord-Italia, l'aroma particolare dell'Uva americana evoca ricordi di fine estate, sapori di orti e giardini famigliari, dove non ne mancava mai qualche vite allevata a pergola, a estivo. Erano rustiche e davano questi vini che però avevano il ben noto sapore volpino e che risultavano inoltre scarsamente alcolici, poco stabili nel colore, talora più ricchi di alcol metilico. I primi ad essere utilizzati, i peggiori dal punto di vista della qualità, erano sovente ibridi naturali, derivati cioè da incroci spontanei: il Clinton da Vitis Labrusca x Vitis vinifera, l'Uva fragola che tutti conoscono, o Isabella, da un semenzale dello stesso incrocio allevato e propagato da Isabelle Gibbs. Ma quale consumo viene fatto di questi vini, che sono fortemente aromatici e non facilmente abbinabili? La risposta è: sono i tipici protagonisti della "merenda delle cinque" e vengono accompagnati solitamente con il cosiddetto "Pan Biscotto", una pagnotta di pane passata in forno per lungo tempo e che viene sbriciolata e inzuppata nel vino. Il Pan Biscotto una volta si faceva in casa, perché si metteva il pane ormai non più buono da mangiare nella stufa che serviva per iscaldamento domestico, e questo si tostava lentamente; ora sarebbe poco conveniente farlo nel forno delle nostre cucine e perciò lo si trova già fatto nei panifici. Assaggiamo per primo il Clintòn, ottenuto da uve omonime. Il colore è rubino piuttosto carico con sfumature violacee; nei profumi, dolci, domina la fragola, ma sono presenti anche spiccati toni vegetali, e nel sottofondo accenni di frutta di bosco nera,In bocca il vino è molto diverso: è di corpo medio ed è dominato da note asprigne. Sul Fragolino c'è subito un equivoco da dissipare: non è lo stesso Fragolino, abbastanza diffuso, che si trova imbottigliato e che è un vino aromatizzato al gusto di fragola. Questo è l'autentico, ottenuto da uva fragola, ed alla rimozione del tappo ci riserva una sorpresa: un'autentica fontana si sprigiona dalla bottiglia. Il vino è infatti effervescente, e spuma se è stato mosso durante il trasporto.

Si presenta di colore rubino non troppo carico, un po' opaco; al naso è dominato da profumi di fragola matura che inizialmente sono sporcati da note sulfuree. Dopo qualche minuto la situazione migliora, e in bocca si esprime dolce, rotondo, molto godibile, una rara delizia per il palato di pochi, vista la difficile reperibilità della stupenda bevanda proibita.

20 settembre 2008

Isabella dal sapore di fragola


In tempo di vendemmia , fra le molte varietà di uve che si raccolgono si può includere anche un’uva particolare, inconfondibile sia per le caratteristiche vegetative, sia per il sapore piuttosto insolito. Si tratta dell’uva americana ,chiamata dai vivaisti Isabella conosciuta anche come uva fragola o fraga , la più diffusa vite ibrida “americana” presente,quasi sempre in pochi esemplari,in molti orti, cortili e giardini. L'uva fragola (detta anche Uva americana, Isabella, Raisin de Cassis) è la più antica "vite americana" introdotta in Europa ben prima che sorgesse il problema della fillossera ed ascrivibile alla specie linneana Vitis Labrusca (ma per alcuni potrebbe essere un ibrido americano tra la V. labrusca e la Vitis vinifera). In Francia si hanno le sue prime notizie nel 1820 e in Italia nel 1825. È un vitigno poco resistente alla fillossera ed alla peronospora, ma resiste bene al freddo, il che spiega la sua diffusione nelle vallate alpine. Il vino che se ne produce, detto fragolino, ha un particolare aroma di fragola che i francesi chiamano framboisier o cassis e gli anglosassoni foxy (volpino). Questo aroma in passato non è stato molto apprezzato, ma ora il fragolino sta trovando sempre più estimatori. Alla fine dell'800 imperversavano in Europa la peronospora e l'oidio, che misero in ginocchio la viticoltura europea già malmessa dalla fillossera. In queste condizioni i genetisti di allora non trovarono di meglio che produrre ibridi tra la vite europea (Vitis vinifera) e le altre specie di viti presenti nel mondo, tra cui quelle americane, in gran parte naturalmente resistenti ai temuti patogeni. Tanto più che queste già venivano utilizzate come portinnesti per difendere gli impianti dalla fillossera. Si parlò così di Vite ideale, ovvero di una vite che unisse le qualità organolettiche della vite vinifera e sue cultivar (Sangiovese, Merlot, Cabernet, Sauvignon, Chardonnay ecc.) alla resistenza alle malattie della vite americana. Già, perché la vite americana di per se non ha eccellenti attitudini alla vinificazione e i vini da lei derivati hanno quasi tutti il caratteristico odore-sapore di Foxy, altrimenti detto volpino, che li rende caratteristici ma anche qualitativamente scadenti. Gli ibridi che ne derivarono mantennero questo odore caratteristico e, nonostante gli sforzi dei genetisti, la qualità organolettica non poté essere migliorata senza perdere le caratteristiche di resistenza alla fillossera e ad altre malattie fungine. L'allarme fu però grande tra gli estimatori del vino, perché queste viti di bassa qualità si diffondevano velocemente. Il legislatore, che aveva a cuore la qualità, corse ai ripari. Negli anni 30 vennero adottate severe misure legislative per proibirne la coltivazione. Anche l'uso familiare non è molto consigliabile, dato che la fermentazione di questi ibridi produttori dà origine a vini con contenuti in alcool metilico (metanolo) superiori alla media dei vini derivati da vitis vinifera. Per quanto riguarda infine le tecniche di vinificazione, la produzione del vino fragolino non è differente dalle altre, con l'avvertenza di una accurata diraspatura, che consente di togliere un'ulteriore fonte di gruppi metilici derivanti dalle pectine dei raspi. Chi comunque volesse produrre vino fragolino sappia che esso non è commerciabile in nessuna forma e che esistono metodi analitici testati per riconoscerlo anche se mischiato a vino di vitis vinifera. Questa varietà di vite – alla quale appartengono anche molti altri ibridi diretti, pure importati dall’America e ottenuti per mezzo di ibridazione artificiale - si coltiva soprattutto in piccoli vigneti per il consumo fresco: l’uva che se ne ottiene ha un gusto inconfondibile (di fragola, appunto) che riesce quasi sempre gradito. Tuttavia, la si può coltivare anche come uva da vino per ottenere il famoso fragolino, molto aromatico e dal sapore dolce amabile. Questo vino va destinato esclusivamente al consumo famigliare perché le attuali normative nazionali e della Cee ne vietano produzione e commercio al di fuori dell’autoconsumo. Il vitigno americano, a differenza della maggior parte di quelli europei che sono derivati dalla Vitis vinifera, trae le sue origini dalla Vitis labrusca del Nord America.

18 settembre 2008

Quei vecchi filari


“Il tempo si comporta sempre da galant’uomo, passa senza guardare in faccia a nessuno e non fà differenze”, questo sentivo dire dagli anziani . Con il passare degli anni andando avanti con l'età, molte cose si scordano, ma se si ritorna giovanetti, in un mese d’estate, di un anno qualunque di quelli, è possibile vedere il filare di uva clinto, che si snodava perfettamente dritto seguendo l’orlo della scarpata, che andava a morire al margine della muraglia a secco. Questa, sosteneva lo sbalzo fra la strada principale e la proprietà, il filare correva attiguo alla capitagna, che segnava il limite della terra coltivabile. Di tanto in tanto, ad intervalli regolari, vi erano messi a dimora degli ontani o dei gelsi, che sostenevano i fili di ferro, che, a loro volta, reggevano i tralci delle viti. Se lasciate crescere spontaneamente, si sarebbero sviluppate appoggiandosi al terreno perché il loro fusto non ha consistenza sufficiente per svilupparsi in modo eretto. Fusto e tralci delle viti erano legati, con dei più o meno sottili rametti elastici di salice selvatico, al filo di ferro ben teso fra albero e albero e, fino a quando essi non marcivano, mai erano sostituiti. Per far rimanere il filo di ferro sempre ben teso fra un sostegno e l’altro e in linea retta, si cominciava, in un primo momento, tendendolo e, dopo, venivano messi solitamente a metà due paletti incrociati per tenderlo al massimo che venivano ruotati nel verso giusto.

Quando il filo di ferro arrivava alla tensione voluta, si bloccava uno dei due paletti con un rametto di salice allo stesso filo di ferro, così fissato non si sarebbe srotolato. La strada interna era larga quanto bastava per far transitare , il carro a due ruote, il carro grande ed altri macchinari, che servivano per lavorare la terra. La strada aveva due solchi nei quali non attecchiva un sol filo di erba perché era continuamente schiacciata dai cerchioni di ferro delle ruote dei carri, che vi passavano sopra. La parte del terreno, che andava verso il basso e che formava la scarpata messa nella parte destra, dirigendosi in fuori rispetto alla casa, non era mai lavorata né con il badile, né con il piccone. La si lasciava allo stato incolto lasciandovi crescere spontaneamente la gramigna, che sottoterra è tutta radici fittissime e avrebbe saldamente fissato il terreno. Gli uomini falciavano l’erba in questa lingua di terra in forte pendenza, e dovevano far doppia fatica: una per il falciare faticoso ed una per farcela a tenersi eretti. La parte dei campi interna alla strada, quella che si apriva verso l’alto, era erpicata, seminata, zappata ed era separata da un piccolo fossato, che avrebbe guidato l’acqua piovana in eccedenza verso il punto adattato allo scolo e defluire senza rovinare i campi, la strada campestre e la stessa scarpata. In quei tempi passati, quando si presentavano tanti problemi, che oggi non esistono più, era premura di tutti i contadini di coltivare, oltre ai filari di uva che fruttava di più per ricavarne del vino, anche qualche vitigno di uva clinton. A quei tempi le difficoltà per la campagna erano molte e, oltre alle malattie provocate da batteri, potevano aggiungersi: gelate, eccessiva pioggia, grandinate, siccità e altre calamità. Per le viti di uva clinton non serviva né verderame né zolfo. In fin dei conti, coltivare questo tipo di viti sarebbe costato meno fatica ed il raccolto era sicuro, ma i grappoli erano minuti e i grani radi e, così, si sarebbe potuto raccogliere poca uva da pigiare. L’uva clinton, era indenne dai batteri, se le altre viti fossero state intaccate dalla fillossera, avrebbe ovviato alla penuria di vino quel poco di clinton, che si era vendemmiato. Non avendo bisogno di alcuna cura, era uso mettere a dimora anche una sola vite qua e là, nei posti più isolati. Bastava conficcare un palo in terra o sistemare una lunga pertica fra due alberi e legare fusto e tralci. Per la raccolta dei pochi grappoli di queste viti isolate, si andava o con una cesta portata a mano, che era confezionata con sottili rami di salice selvatico oppure portare con l’arconcello due ceste appese ai suoi ganci. L’unico attrezzo indispensabile era la forbice da potatura o un piccolo coltello.

14 settembre 2008

Punto croce


Un luogo così magico, come era quel paese, cresceva la sua gente con cura donando loro, con generosità, quelle doti e quelle caratteristiche di unicità, senza fare distinzione alcuna tra i sessi. Fin da bambini si respirava l’aria speciale di quel luogo e lo facevano, allo stesso modo, sia i maschi che la femmine, in piena parità perché, già da allora esisteva quella che oggi è per tutti la “par condicio”. I maschietti erano, al tempo della beata incoscienza negli anni della scuola elementare, degli scatenati piccoli mascalzoni e avevano un’idea sull’esistenza delle bambine ancora molto vaga. I maschi, verso l’altra metà del cielo, nutrivano decisamente poca considerazione, poiché il loro interesse era rivolto solo ed unicamente verso ciò che era o gravitava attorno al “genere maschile”. Esistevano però dei punti di contatto, certo non voluti e a volte subiti, ma l’esistenza di sorelline o bambine vicine di casa portava ineluttabilmente ad intrattenere,prima o poi, rapporti con le femmine. Il destino volle che,chi più chi meno, non rimanesse indenne da tal fenomeno, pertanto ti ritrovavi a frequentare parchi e cortili nei quali sostavano per gran parte della giornata assembramenti di chiassose femminucce. Se inizialmente, nonostante il fragoroso chiacchiericcio che producevano, non riuscivano a richiamare la tua attenzione verso la sola loro esistenza, col tempo cominciavi, poco alla volta, a vederle, poi a sentirle, per arrivare (nemmeno in tanto tempo) a guardarle e ad ascoltarle. A quel punto, come è destino per i maschi (e la vita poi lo confermerà in diverse altre occasioni), senza rendersene conto capitoli e cominciavi ad interessarti a quello che facevano le femmine, chiaramente inteso, a quel tempo, come giochi ed attività ludiche in genere. Le schiamazzanti rappresentanti delle classi femminili presenti in quel posto erano, al tempo, esperte ed appassionate del "punto croce", ora voi vi chiederete che cosa fosse il "punto croce"?
Beh! A dire il vero non lo sapevano bene neppure loro e, con il passare degli anni, passando la
moda del "punto croce", non ho più potuto, né voluto approfondire la mia conoscenza in materia.
Ricordo che passavano interi pomeriggi a cercare di infilare, con uno speciale ago, fili di cotone colorato nella trama di un pesante tessuto.
Ad onore del vero, il pesante tessuto assomigliava molto di più ad una rete da pesca a maglie molto fitte, e le smorfiose chine nel lavorarlo sembravano quei pescatori che tutti hanno avuto occasione di vedere, seduti sul ciglio di un porto a riparare le loro dopo la pesca.
In sostanza la cosa funzionava così: alle bambine di quell’età, allora, venivano di solito regalate stuoie che da un lato riportavano disegni colorati e le ricamatrici in erba, utilizzando fili di cotone dei colori più rassomiglianti possibile alle aree colorate del disegno, tessevano nodi passando da una parte all’altra della stuoia, fino a ricoprire completamente un lato della tela. Alla fine il risultato era un arazzo raffigurante le cose più disparate, dove i colori erano i fili di cotone tessuti intensamente col famoso metodo detto per l’appunto del “ punto croce”.
Con il passare del tempo sono arrivato alla conclusione che Il " punto croce" altro non fosse se non un espediente delle mamme che, tenendo le figlie fortemente impegnate in un’attività condivisibile solo con altre femminucce, serviva sostanzialmente a far loro evitare o ritardare il più possibile la frequentazione dei maschietti, quasi una forma di profilassi preventiva. Dall’altra parte, quella dei maschietti, esisteva una naturale diffidenza nei confronti delle bambine che aumentava fino al punto di tenersele ben distanti quando le stesse si cimentavano in quei loro giochi, che tanto poco avevano del gioco e tanto più dell'imitazione di mamme e signore in generale. Così andava allora in quel cortile e dalle mani delle piccole ricamatrici, dopo settimane passate sopra alle trame colorate, uscivano alla fine i lavori finiti con risultati più o meno buoni ma, in ogni caso, non di quell’eccezionalità che ci si aspettava, visto l'impegno profuso ed il tempo impiegato a scapito d’altri giochi o passatempi più normali. In paese molti di quei lavori potevano essere ammirati, oltre che nelle case dei genitori delle tizie da ricamo, nel negozio del corniciaio dove erano portati per essere trasformati in quadri da genitori, tanto orgogliosi quanto poco critici, che credevano di avere in casa una grande artista in erba. Travolte dalle vicissitudini di avversi destini le opere, che inizialmente trovavano posto nella migliore parete della stanza più importante della casa, con il passare del tempo e per effetto di un’osservazione più critica, venivano spostate in pareti ed in stanze che meglio si prestavano a valorizzarle fino ad arrivare, passo dopo passo ma inesorabilmente, a trovare posto in cantine soffitte o ripostigli, definitivamente nascoste e dimenticate. Poche sono le opere salvate ed arrivate a noi, oggi, poche campeggiano ancora su pareti più o meno nascoste. Da lì avvertono le nuove generazioni di bambine di quanto sia più importante ricordarsi di un sano nascondino, o un’innocente mosca cieca insieme ai maschietti, che cercare di dimenticare il tempo irrimediabilmente perso in un inutile " punto croce".

Scampata alla catastrofe



La vite - la pianta che produce l'uva - appartiene alla famiglia botanica delle Vitacee, e fra le decine di membri appartenenti a questa famiglia, il genere vitis è quello di principale importanza per la produzione di vino. Il più importante fra questi è la vitis vinifera - da cui proviene oltre il 99% del vino prodotto in tutto il mondo.

Si stima che il numero di varietà di vitis vinifera conosciute in tutto il mondo sia dell'ordine di qualche migliaio.

La vitis vinifera - nonostante sia il genere più importante e diffuso - non è l'unica specie utilizzata per la produzione di vino.

.Le altre specie più diffuse e adatte per la produzione di vino - seppure con risultati ben diversi da quelli della vitis vinifera - sono la vitis labrusca, la vitis riparia e la vitis rotundifolia, tutte originarie nel continente Americano.

Queste specie assumono comunque un'importanza strategica e fondamentale per la produzione di vino in quanto sono, contrariamente alla vitis vinifera, resistenti agli attacchi della temibile fillossera.

Per questa ragione le piante di vitis vinifera sono innestate su ceppi radicali di specie Americane - in particolare la vitis riparia - in modo da contrastare i devastanti effetti di questo parassita.

Non era perciò raro che venissero provati gli impianti di viti provenienti da altre parti del mondo, in particolare dagli Stati Uniti d'America.

Alla fine del diciannovesimo secolo, la vite da vino ha rasentato la definitiva estinzione a causa di un piccolissimo acaro, la fillossera, che devastò i filari in quasi ogni parte del mondo. La cronaca di quella terribile epidemia e la lotta per salvare la vite meriterebbero la penna di un romanziere.

Ci limiteremo a riassumerla per sommi capi, senza però dimenticare l'ingegno umano che trovò la soluzione consentendoci di continuare a degustare il vino.

Per comprendere da dove ebbe origine questo terribile avvenimento che tanto costò ai viticultori di allora, va ricordato come la coltivazione della vite fosse in Francia regolamentata da leggi di tutela già dalla seconda metà del '700.

Già da allora con estrema professionalità, si sperimentavano coltivazioni di nuovi vitigni, sempre alla ricerca di nuovi metodi che garantissero il primato dei "premiere cru" d'oltralpe.

Dopo il 1850, con l'avvento delle prime navi a vapore, il tempo di viaggio tra le coste statunitensi e quelle francesi si ridusse drasticamente: da oltre tre settimane a circa dieci giorni ! E fu così che, con ogni probabilità, alcune piante di vite infestate dalla fillossera, che da sempre viveva solo in America, giunsero in Francia con gli indesiderati parassiti ancora vivi.

La fillossera, non ancora individuata come un acaro parassita, era conosciuta negli Stati Uniti, come una malattia della vite americana che attaccava le foglie, danneggiando la pianta ma, come spesso fanno i parassiti che devono la loro alla sopravvivenza della pianta che li ospita, senza ucciderla.

La vite era stata coltivata con grande soddisfazione in tutta l'Europa, sino alla meta del 1800, fu in quel periodo che la Philloxera vastratix "sbarcò" nel vecchio continente, proveniente dall'america del nord.

I primi ad accorgersi delle devastazioni che l'insetto era in grado di provocare alla vite europea furono i francesi intorno al 1860. In Italia la fillossera giunse 20 anni dopo, e anche quì si propagò rapidamente.Gli sforzi profusi nella lotta di questo insetto furono per lunghi anni vani e, ad un certo punto, si pensò che la fillossera, che attacca le radici della vite europea e le fa marcire, avrebbe finito con il portare all'estinzione della vite autoctona.

I contadini e gli Agronomi resistevano con tutto quello che la scienza di allora permetteva di fare: pericolosissime fumifìgazioni, iniezioni nel terreno di sostanze chimiche, si rallentò l'avanzata del morbo, ma non fu fermato; poi gli studi di Pasteur sull'infinitamente piccolo e l'uso scientifico del microscopio consentirono di individuare la causa: la fillossera che, sulla vitis vinifera si comportava in maniera diversa che sulla vite americana. Mentre sulla seconda l'attacco era alle foglie, sulla nostra vite, ben più pericolosamente, la fillossera scavava gallerie nelle radici per deporre le uova; la vite reagiva producendo dei noduli o galle e, sentendoli come corpi estranei poi li rigettava, procurandosi la morte per mancanza di radici.
Fu uno studioso, Gaston Bazille che, con lucido ingegno dettò la soluzione: visto che la fillossera attaccava le radici della vitis vinifera, ma non la pianta, mentre nella vite americana attaccava le foglie ma non le radici, "si innestino le viti sulle radici della vite americana". E così fu provato e la vite riprese a crescere rigogliosa !
Quando bevete un bicchiere di buon vino, talvolta rivolgete quindi un pensiero riconoscente a Monsieur Bazille, che sicuramente riposa nel Paradiso dei benefattori dell'Umanità, ma anche ai contadini che per ogni vite piantata, da più di un secolo, procedono pazientemente agli innesti sulle barbatelle di vite per consentirci, dopo qualche anno, di degustare il prodotto del loro duro lavoro.





06 settembre 2008

Figà a la venexiana


Par quatro de boca bona

8 eti de fegato de vedelo, a fete alte on zentimetro;
do bele zeole;
ojo stravergine de oliva;
na paela bela larga;

Se fa cussì:

1.Fare el desfrito, in’te sto caso, xe el 90 par zento dela riceta
2.So l’ojo, la zeola tajà fina la ga da ziaparse pian pianelo, fin a deventare squasi trasparente: jutarà on par de sculieri de vin bianco seco, a metà;
3.A desfrito fato, butare so la tecia el fegato tajà a fetele grosse du dii par du dii;
.4.Smissiare con on sculiero de legno, assando che el fegato el se rosola apena tuto torno: no’l ga da sfritegare !
5.Cavare dal fogo e servire de bojo;
6.Le boche fine lo compagna co arquante fete de polenta, bianca o zala, al gusto. No se magna altro.
7.Na graspeta jutarìa a tegnere zo ...le zeole.

05 settembre 2008

De gustibus . . .


Il piccolo frutto della pianta della vite è l'elemento fondamentale da cui inizia la grande avventura della produzione di vino, piccole bacche colorate dal cui succo nascono infiniti stili di vini. Non esistono testimonianze certe e attendibili sull'esatto modo in cui si è giunti alla scoperta del vino, e soprattutto, sulla scoperta degli eventi che da un piccolo chicco d'uva, ricco di dolce succo, portava alla produzione di una bevanda molto diversa dalla materia di origine.

Le diverse culture dei paesi in cui si produce storicamente il vino, fanno risalire la scoperta della bevanda di Bacco alle gentili concessioni fatte da benevoli dei al genere umano sia per la loro gioia sia per il loro sostentamento. Indipendentemente dalle reali origini di questa millenaria bevanda, mitologiche oppure frutto di semplici e rivoluzionari eventi naturali, o ancora dal risultato della fortuita incuria riservata al succo d'uva che con il tempo si trasformava per effetto della fermentazione.Il vino ha sempre avuto un posto di rilievo nelle culture dei popoli in cui era presente.E pensare che tutto ha origine da una “modesta” e certamente tenace pianta - la vite - i cui frutti, disposti in colorati grappoli, sono ricchi di un succo dolce e opportunamente acido capace di offrire, dopo una serie di straordinarie modificazioni chimiche, una bevanda di assoluto pregio e rilievo.

Il vino che non rimane mai immobile ma evolve continuamente, la sua evoluzione può essere notata tramite il suo colore, il sapore ed il suo profumo.

Ogni vino attraversa diverse fasi: acerbo, giovane, pronto, invecchiato e vecchio. Insomma ogni vino possiede un preciso ciclo vitale, che può durare qualche mese, ma può giungere sino a qualche decennio.

Se ci soffermiamo ad analizzare il colore possiamo dire che ad una colorazione corrisponde una determinata caratteristica gustativa.

Nei vini bianchi la colorazione deve essere giallo paglierino (ci sono varie sfumature dello stesso). Non è accettabile infatti un vino molto chiaro (povero), nè un vino bianco ambrato (vecchio, tannico, ossidato).

Per i vini rossi la scala cromatica và dal porpora, al rubino, al granato o aranciato (con sfumature intermedie).

In genere il porpora (pensate ai Cardinali) è il colore di un vino giovane, man mano che il vino invecchia perde parte del rosso per acquistare più color mattone, naturalmente se un vino giovane è color mattone significa che il vino non è buono.

Un esempio per capire meglio : un lambrusco essendo un vino giovane deve essere rosso rubino, un cabernet (3 0 4 anni) deve avere un colore rubino con riflessi granati o rubino granato, un barolo essendo un vino di quasi un decennio sarà rosso granato etc. A tutto ciò si sommano poi gli aromi ed i sapori ( profumi che ricordano la vaniglia) che vengono donati al vino dall'invecchiamento in botti di rovere (per il rosso). Nell'invecchiamento del vino diminuisce l'acidità totale (ciò è dovuto ad un tipo di fermentazione effettuata da batteri lattici che viene chiamata fermentazione malolattica). Questo tipo di fermentazione consiste nel trasformare l'acido malico in acido lattico ed anidride carbonica.

Grazie a questa fermentazione il vino sarà più morbido rotondo ed armonico, tale processo avviene spontaneamente in primavera in seguito ad un aumento termico per via di batteri che si mettono in azione (mentre ciò è gradito per i vini rossi e da evitare nei i vini bianchi che possiedono già buona morbidezza).

Quindi non berrete quasi mai vini nell'anno in cui sono state raccolte le uve, il vino ha infatti bisogno di mesi per essere pronto, eccezion fatta per i vini novelli che in poco più di un mese sono in commercio
Dei gusti non si discute, è ben noto; Confessiamo, però, di gradire di gran lunga la semplice, buona abitudine di spiluccare un bel grappolo d'uva.