20 febbraio 2009

Calma piatta


E' un giorno con una luce strana , poca, quasi stinta, tanto che priva le voci e i suoni dei toni acuti.
Trasforma ogni umano contatto quotidiano in lento e piatto lamento, tendente al grave e comunque monotono.Il cielo è dipinto; è dipinto a pennellate, sembra.
Questo schermo che oggi si spaccia per cielo e vergato a fitte pennellate, larghe e della stessa tinta, monotona e uniforme, tanto da non meritarsi nemmeno di essere incisa dal volo dei soliti uccelli.
Questi preferiscono starsene immobili sotto le foglie dei rocciosi e statici alberi e tutti insieme subiscono ed esprimono la depressione indotta dal cielo sopra di loro.
Calma piatta.Quasi una immobilità artificiosa .
A guardarli bene, gli alberi, sono gli unici che tentano di uscire da quello stato catartico ,quasi a contraddire l'appropriato stato vegetativo e mimano il movimento che farebbero se fossero scossi da una leggera brezza.
Ma mimano male; e riescono solo a dare una improbabile impressione di moto.
L'inquadratura è disturbata da un'improvviso, quanto imprevisto, volo teso di un piccolo volatile che l'attraversa. Bè! siamo ancora vivi.

12 febbraio 2009

La Sabbiona



Quel giovedì di mezzo agosto era la giornata giusta; può sembrare una stranezza a dirlo, ma ci sono le giornate giuste per certe cose e giornate giuste per altre. In quella c’erano tutte le condizioni per fare la cosa che da qualche tempo aveva concentrato i nostri pensieri. Sembrava proprio che i nostri cervelli funzionassero all’unisono, girando e rigirando attorno all’idea che da un po’ ci assillava. Quel giorno non mancava né la voglia, né la volontà, né l’entusiasmo e tanto meno quel po’ di paura che non guasta in certi casi: insomma non si poteva più rinviare, valeva la pena di rischiare anzi, se non si fosse fatto in quel momento, pensavamo, non ci saremo più riusciti. Quel pomeriggio afoso e solitario dispensava veramente un caldo insopportabile: la colonnina di mercurio blu del termometrone, attaccato al muro di fianco alla porta della farmacia, era arrivata a segnare quarantanove gradi centigradi, ed oltretutto lo strumentone di lamiera smaltata bianca e azzurra, era riparato dal sole, dalla tenda del negozio. L’afa in quel pomeriggio d’agosto aveva raggiunto un livello esagerato, nell’aria si sentiva e si vedeva l’umidità, qualsiasi essere vivente, umano, animale o vegetale si riparava quanto più possibile dando, in sudore, anche l’anima. Per le strade non c’era anima viva, sembrava di stare in uno di quei paesi abbandonati dei film Western dove, tra i muri cadenti delle case abbandonate, volteggiano solo cespugli rotolanti di piante secche, non si vedeva nemmeno un cane o un gatto aggirarsi per le strade, battute da quel sole micidiale che impediva persino ai passeri di volare. Noi, a quel tempo, piccoli rivoluzionari in calzoni corti, stavamo immobili, ognuno con gli stessi pensieri che giravano vorticosamente nella testa, silenziosi guardandoci e guardando fuori della porta del capanno, dove andavamo di solito a giocare in quelle giornate oziose delle vacanze estive. Analizzando rapidamente la situazione, eravamo arrivati quasi simultaneamente alle stesse conclusioni: le condizioni erano le più favorevoli che si fossero mai presentate e in più, con molte probabilità, se non ci perdevamo troppo tempo, nessuno se ne sarebbe accorto, e meno di tutti i genitori che ci credevano impegnati a giocare all’interno del capanno. Così, come in ogni setta di cospiratori che si rispetti, decidemmo all’unanimità e, usciti con circospezione dalla porta sul retro dell’edificio, partimmo come fulmini, macinando veloci pedalate sulle biciclette in direzione del fiume. Sudavamo copiosamente sotto quel sole micidiale e, nel silenzio del meriggio agostano, i respiri affannosi insieme al rumore delle biciclette e quello delle ruote sull’asfalto, creavano un rumore che ci sembrava assordante e che faceva rendeva l’azione ancor più eccitante. Tutto stava realmente accadendo: la fatica per la foga che ci mettevamo nel pedalare, la paura di essere visti e scoperti, l’eccitazione perché stavamo coscientemente facendo una delle poche cose che erano proibitissime, l’impazienza di arrivare per poter godere del sollievo a quella calura insopportabile. In poco tempo eravamo arrivati all’argine e, raggiunta la sommità, vedevamo l’acqua del fiume che, per il basso livello a causa di quella calda estate, scorreva lenta creando circoli e vortici tortuosi, tra le secche sabbiose che emergevano qua e là. Affrontammo la ripida discesa, seguendo un sentiero nell’erba, alta e seccata dal caldo, poi appena giunti in fondo alla scarpate frenammo o cercammo di farlo, tant’è che finimmo gli uni sopra gli altri comprese le biciclette ma la vista di quello che ci si presentava davanti spense lamenti e proteste: stavamo sulla fine e calda sabbia del greto del fiume. Ripresi dalla forte emozione, ci liberammo dal groviglio e, lasciate le biciclette, ci spogliammo in tutta fretta e poi via! Di corsa verso l’acqua del fiume e sentivamo, ad ogni passo, che sotto ai piedi il calore della sabbia diminuiva mentre ci si avvicinava all’acqua, ed una volta messi i piedi a bagno ci prese una specie di tremarella, ci fermammo per un attimo a guardarci: stavamo facendo il bagno alla Sabbiona! La Sabbiona era in quei tempi di boom economico, e quindi di vacanze e vacanzieri nelle più nominate località, la spiaggia locale sul fiume, il surrogato casalingo in risposta alle più rinomate spiagge marine, insomma chi non aveva la possibilità di farsi i bagni e la tintarella al mare, ricorreva alla più familiare e proletaria Sabbiona. Nei pomeriggi delle domeniche estive, la Sabbiona vedeva arrivare frequentatori non solo dai paesi rivieraschi ma anche dalla vicina città, a volte si arrivava a vedere un buon numero di persone: dalle famigliole alle coppiette, ai vari tipi da spiaggia che insieme ai pescatori davano vita a quel lido di poche pretese. La spiaggia però era tabù per i bambini, a pochi era permesso andare alla Sabbiona e solamente sotto la vigile e attenta presenza dei genitori, non che ci fossero delle norme o delle regole che regolavano l’uso della spiaggetta,ma per i timori di sventure. Da che la gente aveva memoria il fiume si era preso molte vite e per la maggior parte si trattava di ragazzini che si avventuravano in acqua con troppa confidenza. Si era portato via anche nuotatori esperti e pescatori o barcaioli:insomma non passava stagione senza un tributo in vite umane. I genitori, proprio perché c’erano già passati e l’avevano subita da ragazzi, sapevano quanta attrazione esercitava il fiume nei ragazzini e al tempo stesso quale imprevedibile pericolo era, quindi, sia con raccomandazioni sia con minacce, facevano di tutto per tenerli lontani dalla Sabbiona. Ma noi quel giorno eravamo là, a trovare refrigerio e deliziarci della soave freschezza di quelle acque che ci lambivano e ci accoglievano nei nostri tuffi e giochi mentre ci rincorrevamo, sguazzando in quell’angolo di paradiso. Il sole scottava violento e invitava ad entrare in quell’acqua che, solo a guardarla, prometteva refrigerio e benessere. Un tuffo, ed improvvisamente, quasi con violenza, sentii la fredda carezza dell’acqua che mi avvolgeva e attraversava il corpo. Bastarono pochi attimi per sentire che quel primo brivido cominciava a stemperarsi, regolando la temperatura e donandomi in breve una sensazione di freschezza inebriante. Dopo essere rimasto un po’ immerso cominciai ad avvertire il ritorno di un brivido fresco che aumentava diventando freddo, allora uscii dall’acqua e risentii il calore estivo, tornavo a godere del caldo abbraccio del sole che mi asciugava e riscaldava. Felici e chiassosi ci rincorrevamo in giochi e scherzi, ora nelle acque basse alzando schizzi d’acqua, ora lungo la riva sabbiosa alzando nuvole polverose. Quelli che sapevano un po’ nuotare o almeno tenersi a galla, si tuffavamo nei punti dove il fiume, con i suoi giri d’acqua, formava delle anse più profonde e pozze che sembravano piscine poi, dopo essere scomparsi tra gli spruzzi, riemergevano e si lasciavano trasportare dolcemente dalla corrente, che in quei punti era più forte. Ci sentivamo incredibilmente eccitati e frastornati per tutto quello che stava accadendo, per tutto ciò che stavamo facendo, godevamo del delizioso contatto con quel prezioso elemento naturale e affascinante, che in ogni momento e in ogni punto nel suo procedere, cambiava quasi per miracolo colore e sapore e temperatura. A seconda di dove scorreva assumeva colori e sfumature diverse che cambiavano repentinamente ,In certi punti l’acqua era bianca e schiumosa mentre in altri assumeva un aspetto scuro e uniforme, ma dovunque disegnava, adattandosi alle forme che lambiva, figure sinuose che attiravano lo sguardo curioso e meravigliato e ipnotizzando chi si lasciava rapire da quell’arcobaleno di colori. In quei momenti forse l’unica cosa che sarei riuscito a paragonare al mio stato d’animo era lei, l’acqua del fiume, in quel pomeriggio ero come lei: libero! Mi sentivo libero da costrizioni, libero di muovermi e di fare, nel bene o nel male, ciò che volevo. Io ed i miei compagni di avventura ci sentivamo accomunati in quella stessa sensazione. Eravamo liberi di fare ciò che volevamo, eravamo anche coscienti che stavamo facendo ciò che nessuno ci avrebbe mai permesso di fare né accompagnati, men che meno da soli, eravamo, inoltre, coscienti del fatto che, in quel momento e per tutti, eravamo dei perfetti incoscienti. Beatamente ci abbandonammo al sottile piacere del proibito e così facendo non ci accorgemmo che il tempo stava passando veloce, più di quanto avevamo previsto nelle intenzioni iniziali, mentre a casa qualcuno aveva già notato la nostra assenza prolungata e cominciava a preoccuparsi. Erano passate già tre ore da quando eravamo partiti e non ce n’eravamo accorti, tanto si stava bene e ci si divertiva, nel frattempo tra coloro che erano abituati alle nostre abitudini, si era già passati dalla preoccupazione allo stato d’allarme. I genitori che, non avendoci trovati come al solito tra il cortile ed il capanno, né nei dintorni o nei soliti posti dove abitualmente andavamo a giocare, avevano fatto presto i loro conti ed ognuno di loro era arrivato alla conclusione. Ogn’uno di loro, conoscendo la propria creatura e la compagnia che frequentava, arrivò, più o meno convinto, alla conclusione che tra le varie combinazioni ci poteva stare anche la scappatella alla Sabbiona e quando uno di loro ebbe il coraggio e la paura di dirlo apertamente, scattò il panico e la mobilitazione generale. Nessun pensiero attraversava le nostre giovani teste, in quel momento eravamo tanto rilassati quanto ignari di ciò che il destino ci stava riservando, degli eventi sgradevoli che di lì a poco ci avrebbero visti protagonisti. Soddisfatti e contenti, ce ne stavamo mollemente stesi sulla calda sabbia , con i piedi nell’acqua fresca, a riposare. L’avventura ed il divertimento terminarono improvvisamente, precisamente nel momento in cui ci sentimmo chiamare da voci provenienti dall’argine, in quel preciso istante spalancai gli occhi senza vedere ma, come del resto successe anche gli altri, realizzai immediatamente cosa stava accadendo. Lo sapevamo anche senza guardare, sapevamo chi c’era e, attraversati da brividi di paura (quella che guasta la festa), alzandoci volgemmo lo sguardo verso la sommità dell’argine e li vedemmo. C’erano tutti, o quasi: padri o mamme, nonni o zii, fratelli maggiori e parenti vari erano là che si sbracciavano, che ci chiamavano, con i visi rossi per l’affanno della corsa e del timore, esagitati e arrabbiati. Quella piccola folla era ferma sulla riva e tutti gesticolavano e urlavano verso di noi che a nostra volta eravamo rimasti pietrificati dalla sorpresa e non sapevamo cosa fare: se andare da loro, come ci stavano ordinando o guadagnare a nuoto l’altra riva del fiume per cercare di sfuggire a ciò che ci sarebbe toccato . Il peggio fu assistere, nei brevi ma intensi attimi successivi alla sorpresa, alla trasformazione dei genitori ansiosi ed angosciati, in individui brutali e violenti dopo aver costatato lo scampato pericolo dei loro incoscienti pargoli. Tutti tornammo dal fiume, accompagnati dai rimproveri urlati e accompagnati dalle sberle dei rispettivi accompagnatori che, non contenti di quanto ci stavano elargendo durante il tragitto verso il paese, ci promettevano per l’arrivo a casa, cioè quando avrebbero avuto più tempo e più mani libere, una memorabile lezione e, in effetti, fu così. Dopo le dolci onde del fiume, il diluvio di brucianti sculaccioni, a chi più, a chi meno ma senza grandi differenze, tutti ricevemmo la nostra razione da ciascun componente della famiglia: nel rispetto della democrazia e della pari opportunità. Per quanto mi riguarda n’ebbi una bella razione vivendo con i nonni, genitori e un paio di fratelli più grandi. Non mi fu di consolazione il sapere che tra i compagni di sventura, c’era chi aveva famiglie ben più numerose, solo il ricordo di quelle fresche acque che ancora mi portavo dentro sembrava, in parte, lenire il bruciante dolore che soffrivo al mio fondoschiena. La avevamo combinata talmente grossa che, oltre alle botte, seguirono giornate di castigo caratterizzate da forti restrizioni della libertà di movimento, nonché da controlli strettissimi, ci fu riservato un trattamento persecutorio che ci tolse serenità e ci accompagnò fino alla fine dell’estate, Però, in fondo, eravamo convinti che ne fosse valsa la penA; che avventura indimenticabile avevamo vissuto in quel caldo agosto, ancora adesso quando ci ripenso riesco a ricordare e a riprovare quelle sensazioni sulla pelle. il caldo soffocante nell’afa di quell’agosto, la freschezza dell’acqua del fiume, e il bruciore delle botte prese.

09 febbraio 2009

Quello che so di te



Non so in quale mondo ti trovi
se rivolgi il tuo sguardo a quel sole
che oggi brilla più chiaro nell’alba
di un mattino che ora è anche il mio.

Non so per chi hai pianto di notte
chi hai amato,voluto, respinto.
Fra la gente che ha udito il tuo riso
argentino come ora è anche il mio.

Non so chi ricorda il tuo nome
o desidera vederti ogni istante,
come immagini sia il tuo cammino
nel futuro che ora è anche il mio.

Mi piace pensarti felice.
Una lucciola in una notte d’estate.
Un gabbiano che insegue una nuvola.
Un respiro che sento anche mio.

Non so nulla, nemmeno il tuo nome
o il tuo volto, la voce, il tuo passo.
II tuo coraggio lo riconosco dal cuore
che mi hai donato, e che ora è anche mio.





vincitrice del Concorso A.I.T.F., pubblicata sul sito: donagliorgani.it

Galani



Par quatro che magna

1/2 chilo de farina

70 gr. de butiro

1 sculiero de zùcaro

2 ovi

1 pizegheto de sale



Se fa cussì:

1.Ronpare i ovi e tegnere da na parte la balota (el rosso) e da staltra la ciara.

2.Sbàtare la ciara "a neve" dura.

3.So nantra terina montare le balote col zùcaro, po' zontarghe prima la ciara za montà e po', on fià par volta, la farina.

4.Bagnare con on fià de aqua se serve par far deventare pì mòrbio l'inpasto.

5.Inpastare fin che la pasta no se taca pì ale man.

6.Spartire in oto parte la balota del'inpasto.

7.Destirare co la mescola ogni una de ste oto balete fasendole deventare come on foglio, no massa fin.

8.Ciapare on sfojo, inburarlo sol dessora e pozarghe dessora on secondo sfojo.

9.Inburare anca el secondo, po' montarghe dessora el terzo, e cussì fin al'ultimo. Questo no bisogna inburarlo!

10.Oncora co la mescola destirare sto "pacheto" de sfoji fin a farlo deventare on sfojo solo, largo e fin, el pì che se pole.

11.Co la roeleta da dolzi, tajare dele striche larghe do dea e longhe quatro.

12.Butare sti nastri (galani, come che se dise in venezian) so l'ojo bolente e frizare fin ch'i ciapa colore. Se i xe sta inpastà ben, vegnarà fora tute bole de aria.

13.Cavàre e sugare so carta che assorba e po' spolvarare co zùcaro a velo.

Succedeva e, forse, ancora succede ?!


Carissima disinnescatrice,
non essendo passato tanto tempo dall'ultima volta che ho avuto bisogno del tuo intervento risolutore e, ti assicuro, che ho apprezzato, ho ben pensato di scriverti.
Vorrei innanzitutto dirti che, in questi ultimi giorni, si sono succeduti fatti nuovi e abbastanza importanti per singolarità,tali da alterare considerevolmente la routine quotidiana nei fatti e nei pensieri.
La nuova più eclatante che ha sconvolto animi e ambizioni, è stata la improvvisa comparsa di nuovi profili anticipanti nuovi nomi pretendenti al massimo soglio della ricambistica umana.
Materializzandosi da un nulla patologico provenienti da direzioni sconosciute o poco note ma al tempo stesso portandosi appresso voluminose esperienze attendistiche e vantando priorità indiscutibili si sono apprressi allo sportello superando, e scalzando posizioni che credevo ,credevamo,credevano inattaccabili.
Tant'è che ogni teoria o pratica precedente e pregressa pare s'involi dalla inamovibile certezza verso la più discussa precarietà.
Pertanto a tal seguito ci resta , una volta sgrondato di tutto il decorativo superfluo, tale considerazione ,peraltro molto vicina al vero che:
-La parola baronale è parola leggera.
-Non dire equivale ad affermare.
Varrebbe. . . , pare . . . , il principio della caotica incertezza , l'affermazione del sistema accusatorio su quello inquisitorio e l'abrogazione di ogni fase dibattimantale.
Mi sovviene pertanto , d'affermare che, sotto l'accademica stola, traspare la battuta guitta che trasforma il luogo di scienza in opera buffa.