14 dicembre 2022

Ma il tempo, passa?


Le stagioni, in questo luogo mezzo piatto e mezzo appiattito, sono sempre estreme, mai una media stagionale, come dicono i meteorologi, mai in un modo che abbia la parvenza di normale.

Le stagioni, in questa terra depressa, passano lasciando sempre il segno, facendosi sempre ricordare e alimentando nella gente la speranza che non ritornino più così, come le hanno viste e che, invece, anno dopo anno, generazione dopo generazione, immancabilmente ritornano così e anche peggio.

Le stagioni calde sono eccessivamente calde, calde torride, calde afose, eccezionalmente calde, tanto calde che bruciano e seccano tutto ciò che non ha un riparo.

Le stagioni fredde sono incredibilmente fredde, rigorosamente fredde, gelidamente fredde e fanno raggiungere al termometro temperature eccezionalmente basse.

Le stagioni miti, invece, sono ben poca cosa rispetto alle altre, brevi tregue tra quei fenomeni estremi, ma così brevi che non si riesce nemmeno a considerarle vere e proprie stagioni.

Il tempo passa facendo ricordare, a volte anche troppo bene, le stesse cose che succedono alla gente e a tutto ciò che succede ogni giorno al mondo che sta loro attorno.

Al tempo, non inteso come clima, ma come il succedersi dei giorni, settimane, mesi, anni, non va certamente meglio, anzi, né meglio né peggio e le giornate passano lente, tanto che non si arriva mai a finire di tracciare sul calendario il segno a penna sul giorno appena passato, che si comincia a tracciare il segno su quello che sta iniziando.

Anche lo stato d’animo della gente è abbastanza simile alle stagioni, lo si capisce dai discorsi che fanno e dalle frasi e mezze frasi e dalle occhiate che si scambiano, dal detto non detto, ma capito e che, o sono sempre estremamente favorevoli o decisamente contrarie.

Gente troppo allegra da sfiorare un’apparenza di instabilità psicofisica o troppo triste, quasi depressa, per non parlare delle discussioni e dei contrasti che nascono come normali alterazioni climatiche ed evolvono, con la velocità dei venti di tempesta, in veri e propri cataclismici contrasti al limite dello scontro fisico.

Il tempo è come un galantuomo, passa, senza guardare in faccia a nessuno”, si sente sovente ripetere alle persone mature per età e, si presume, per esperienza, per non dire dei vecchi che di esperienze ne vantano a vagonate.

Tante, ma tante, da non ricordarsene una che una intera, appropriata e adeguata, da lasciare ai giovani.

I giovani, poi, sono l’immagine della sconfitta dell’intelligenza umana, una catastrofe etnica. Molti corpi secchi e provati da evidenti mancanze alimentari, contrapposti ad altri flaccidi e ipernutriti, in comune hanno solo le espressioni dei visi, inequivocabilmente vuote.

Sorrisi e tristezze accomunati nella stessa smorfia, in alcuni casi odontoiatricamente provata e comunque accompagnata da sguardi impenetrabili, spenti e limitati per campo d’azione, che non oltrepassano le punte dei nasi, perennemente sgocciolanti o interessati da campagne archeologiche. 

Nella mente, il tentativo di leggere quelle immagini giunge inesorabilmente allo stesso risultato, qualsiasi sia la chiave di lettura e la domanda sorge spontanea: ma in quei crani ci sta il vuoto relativo o il vuoto assoluto?

Il tempo, quel galantuomo del proverbio, non è poi così tanto galantuomo, anzi, all’apparenza si direbbe un po’ maleducato, sicuramente è molto altezzoso se, passando, non degna di uno sguardo nessuno dei presenti, insomma, l’educazione è di chi ce l’ha e la usa e, senza tante smancerie, almeno un buongiorno è d’obbligo.

Il senso più intrinseco del vecchio detto, si riconosce proprio dopo il passare del tempo, facendo cedere all’ammissione che quel proverbio la dice lunga e, in poche, ma significative parole, racchiude una grande lezione di vita. Ora c’è da chiedersi dove sono finiti quei vecchi saggi e quelle occasioni da non dimenticare, quei protagonisti di fatti e azioni da ricordare in eterno e da portare in ogni occasione ad esempio, con citazioni pompose e retoriche da far sbottare anche il più bonario incassatore o menefreghista di questo mondo.

Direi che i tempi, nel tempo, vengono manipolati ad arte da chi non sapendo bene come cavarsela nelle occasioni più complesse, usa queste preconfezionate, vecchie e ricorrenti manovre, ormai prive di ogni morale e svuotate di qualsiasi insegnamento. 

La gente sa fare solo la gente, nel senso che volente o nolente, o cosciente o incosciente, si adegua all’andazzo di quel mondo in cui trascina la sua vita quotidiana, senza riuscire a dire nulla di più di quello che è stato già detto e ripetuto da tanti prima e che continuerà ad essere ripetuto da tanti, anche dopo. 

Il tempo è un galantuomo? Ma chi? Ma dove? Ma quando? Andate a chiedere a chi aspetta il ritorno di una persona cara se è vero, andate a chiederlo ad un ragazzo che non vede l’ora di essere adulto, o ad una ragazza che aspetta di poter coronare un sogno d’amore. Il tempo è un tiranno che fa penare e che non gli importa nulla delle speranze o dei sogni della gente, anzi, più ci mette a passare e far passare pene d’inferno e più ci gode, perché più aspettiamo e sempre di più sembra che continui progressivamente a rallentare il volano dell’alternarsi delle ore e dei giorni e via dicendo.

I vecchi che conoscevano, a detta loro, tutti gli umori del tempo, avendo potuto sperimentare e apprendere tale conoscenza della vita, non arrivano mai a trasmetterli completamente ai giovani proprio perché il tempo, dopo averli fatti penare per la lentezza, improvvisamente diventa veloce, a tal punto di non lasciar loro più il tempo necessario a poterlo fare.

Il tempo è un’illusione a cui vogliamo credere, ed è alimentata dalle convenzioni inventate dagli uomini proprio per non smettere di crederci.

Il tempo è una fregatura che tutti prima i poi prendono e che, dimenticando di quanto è bruciante, continuano a cascarci ogni volta che si ripresenta l’occasione e, a chi più spesso e a chi meno spesso, le occasioni per cascare in questo imbroglio, mediamente in una vita, si presentano in eguale misura per tutti.

da "CUORI, CERVELLI E ANIME" di G.B. - 2021 edizioni Montag


21 novembre 2022

Perché voterò per la monarchia

Luigi Einaudi

da «L’Opinione», 24 maggio 1946


Non voterò per la monarchia perché io pensi che il Re possa salvare gli averi di coloro che posseggono. Costoro sono bensì moltitudine in Italia: di soli proprietari di terreni si contano 13 milioni, uno ogni tre abitanti e mezzo, più di uno per famiglia. Ma gli averi non si salvano fidando in una forza esteriore. Si salvano solo col lavoro, coll’iniziativa, col risparmio, rinunciando ad ogni monopolio ad ogni privilegio dannoso alla collettività.

Né voterò per la monarchia perché pensi che il Re possa essere le roi des gueux. Non devono più esistere in Italia, come un tempo accadeva, straccioni di cui il Re possa dire di essere il difensore contro la prepotenza dei grandi.

Non voterò neppure per la monarchia perché speri che essa ci salvi dal salto nel buio di una repubblica comunista o socialista. Nessuno può salvare gli italiani dal salto nel buio o nell’abisso se non gli italiani stessi. Se non volessi, assai più che la vittoria della monarchia, la vittoria del bene comune dovrei augurare alla repubblica di iniziare il suo corso nel travagliato momento odierno: col 20% della ricchezza nazionale distrutta, col reddito nazionale totale, ossia coll’insieme della produzione annua totale di beni e servigi, dalla quale soltanto si ricavano salari, stipendi, interessi, guadagni, imposte, ridotto del 45% in confronto all’anteguerra, colle disponibilità liquide (massa totale dei depositi presso le casse di risparmio e banche di ogni specie) nominalmente cresciute, ma in realtà ridotte ad un terzo di quelle esistenti nel 1938. La impossibilità fisica assoluta di mantener le promesse che a gara i partiti vanno facendo, le prove della dura fatica che tutti, appartenenti a tutte le classi sociali, dovremo sostenere, saranno causa di disillusioni acerbissime; delle quali la colpa sarà fatta risalire da molti, forse dai più, all’istituto che avremo scelto per dar forma allo stato.

Ma non voterò per la repubblica, perché temo per l’Italia il pericolo dal quale a grande stento si salvò il 5 maggio la Francia, respingendo il progetto di costituzione che la maggioranza social-comunista aveva costruito. Quel progetto soddisfaceva alla logica astratta dei dottrinari. Se si parte dalla premessa che l’unica, la vera fonte del potere sia la volontà del popolo, è chiaro che da essa soltanto debbano provenire tutte le forze politiche esistenti nel paese. Quando i cittadini hanno eletto una assemblea a suffragio universale segreto, a che pro una seconda assemblea ed un presidente eletti con metodi diversi, dallo stesso popolo, i quali altro non potrebbero fare, se volessero far qualcosa, se non frastornare o ritardare i deliberata della assemblea popolare? Dunque sia unica l’assemblea, sia da questa eletto il capo dello stato e siano da essa e da essa sola dettate le norme relative al mantenimento della giustizia, alla libertà di religione, di pensiero, di stampa, di insegnamento, di associazione. I francesi ricordarono però che le assemblee uniche sovrane sono dominate dai partiti e che questi ubbidiscono, sovratutto in regime di rappresentanza proporzionale, [a] giunte, le quali, impadronitesi della macchina dei partiti, fanno le elezioni; che perciò è sempre imminente la tirannia delle assemblee, non meno dura della tirannia di uno solo. Ricordarono di aver preferito il tiranno alla strapotenza di una assemblea unica sovrana. Ricordarono la dominazione del primo Napoleone, seguita alla Convenzione ed al Terrore, da cui si poterono liberare soltanto grazie alla ritirata di Mosca, ed alle disfatte militari di Lipsia e di Waterloo; ricordarono la rinnovata tirannide del terzo Napoleone, anch’essa funesta a tutte le libertà politiche, seppure largitrice di tranquillità apparente e di prosperità economica. Anch’essa era finita nella sconfitta di Sedan e negli incendi della Comune. Non dimenticarono anche che il signor Lebrun, l’ultimo presidente eletto dalle assemblee elettive, firmò l’atto di morte della terza repubblica.

Neanche la elezione del capo dello stato da parte del suffragio universale diretto e segreto col sistema della repubblica presidenziale, è garanzia di libertà. Conosciamo un solo esempio nella storia contemporanea di repubblica presidenziale stabile: ed è quello degli Stati Uniti. Ma quello è un miracolo dovuto alla coincidenza di molteplici fattori storici, che sarebbe puro caso vedere riprodursi altrove: una lunga ultrasecolare preparazione di governo indipendente nei tredici stati riunitisi nel 1787 in federazione; Washington, il generale fondatore, sceso volontariamente da presidente alla condizione di gentiluomo di campagna, allo scadere del secondo quadriennio; un grande giudice, il Marshall, che fondò e difese l’autorità della Corte suprema contro gli assalti di parlamentari e di presidenti e creò il vero ultimo presidio delle libertà dei cittadini. Le esperienze uniche nella storia non si ripetono. Si ripetono invece le esperienze sfortunatamente ordinarie delle repubbliche centro e sud americane, dove i pronunciamenti militari si succedono e le elezioni sono assalti al potere da parte di capi di fazioni e dove non sono rare le lunghe tirannie dei Rosas e dei Diaz. Accade anche che un presidente eletto dal popolo a tutore della costituzione, secondo i dettami della troppo sapiente carta di Weimar, il maresciallo Hindenburg, consegni il potere al signor Hitler, all’Attila moderno.No; gli uomini trovano libertà solo in se stessi, nella loro forza d’animo, nella decisa volontà di resistere nelle carceri dello Spielberg all’austriaco dominatore, nei reclusori e nelle isole al nostro tiranno da palcoscenico, nelle carceri alle tortura tedesche e neo-fascistiche. Ma poiché dobbiamo creare nella carta costituzionale le garanzie della libertà per tutti i cittadini, anche per quelli che, senza essere eroi servono umilmente la patria compiendo il proprio dovere, dico che, accanto alle due assemblee legislative, accanto ad un capo del governo, che goda la fiducia dell’assemblea popolare, perché la sua elezione è parte della elezione di questa, acanto ad una magistratura autoreclutantesi e indipendente da governi e da assemblee politiche, accanto ai consigli elettivi regionali, provinciali e comunali, forniti, nei limiti dai proprii ben definiti e bene ragionati compiti, di piena autonomia dal governo centrale, accanto alle chiese e massimamente alla chiesa della grande maggioranza degli italiani che è la chiesa cattolica, accanto alle fondazioni ed alle associazioni, accanto alla scuola, istituti tutti volti ad opere autonome di bene, deve esistere un capo di stato, il quale tragga ragioni di vita da una fonte diversa dalla elezione.

Questa fonte è una forza storica costituita da tradizioni, da opere compiute in passato attraverso secoli di lotte e che non possono essere distrutte da errori commessi in un tempo recente, che è un attimo nella vita dei popoli. Noi non possiamo dimenticare che il Piemonte e la Casa Savoia con una lotta secolare avevano respinto da un lato, sino al Ticino, spagnuoli e tedeschi e dall’altro lato, sino alle Alpi, i francesi, i quali pur vantavano diritti su Casale e su Asti e per lunghi anni avevano dominato la capitale dello stato sabaudo da Carmagnola e da Pinerolo, conquistando all’Italia quei confini naturali sulla cima della montagne che oggi, per la sventura a la discordia della due nazioni sorelle, ci sono nuovamente contesi. Noi non possiamo dimenticare che fu così foggiata quella spada, furono fondati ed agguerriti quei reggimenti senza di cui la idea dalla unità d’Italia sarebbe rimasta vana aspirazione di pensatori e di poeti.

Il patrimonio delle tradizioni e delle glorie avite è patrimonio di tutti, che dobbiamo trasmettere intatto ai figli ed ai nepoti. Lo dobbiamo trasmettere cresciuto e rinnovato. La monarchia, forza storica, potere posto al disopra dei partiti, deve diventare quell’istituto di cui in Inghilterra si dice che non se ne parla mai.

Se ne parlò un giorno quando nel 1649 la testa di Carlo I cadde nella sala dei banchetti di Westminster e di nuovo quando nel 1689 Giacomo II fu costretto a prender la via dell’esilio. Ma nel 1689 un parlamentare, cappello in testa, lesse a Guglielmo nipote del re decapitato ed a Maria, figlia del re esiliato, una dichiarazione nella quale era detto che mai più gli inglesi avrebbero tollerato che il loro re esigesse imposte non votate dal parlamento, traesse in arresto cittadini senza il mandato ed il giudizio del magistrato ordinario, sospendesse l’applicazione delle leggi senza il consenso del Parlamento, intralciasse la libertà di parola e di voto dei membri delle due camere. Sono passati 256 anni da quel giorno memorando; ed i re inglesi hanno imparato la lezione e sono oggi il simbolo della unità della comunità delle nazioni britanniche un simbolo di cui non si parla mai e che non si invoca se non quando accada che una Camera dei comuni divisa e discorde in se stessa non riesca a designare chiaramente al capo dello stato colui che dovrà essere il primo ministro.

Questa è la monarchia per la quale noi votiamo; una monarchia la quale nei giorni ordinari sia il simbolo rappresentativo dell’unità della patria e della concordia dei cittadini, circondata da una corte austera, i cui membri siano scelti dal Re e dalla Regina sentito il parere conforme del primo ministro, ed adempia all’ufficio di tutrice della costituzione e di organo della volontà del popolo nei momenti supremi della vita della nazione, quando le altre forze politiche si dimostrano incapaci ad esprimere un governo stabile.

A quel re, memori delle parole che un tempo i compagni delle battaglie comuni contro gli arabi indirizzavano in terra di Spagna ai sovrani nuovamente assunti al trono, noi diciamo, cappello in testa: «Noi, ognuno dei quali è uguale a te e che tutti insieme siamo più di te, dichiariamo e vogliamo che tu sia Re per la difesa di tutti noi contro chiunque di noi si eriga ad oppressore nostro e contro la follia di noi stessi se per avventura ci persuadessimo a rinunciare alla nostra libertà. Se tu sarai Re per difendere noi e le nostre libertà, noi ti saremo fedeli perché saremo, così facendo, fedeli a noi stessi ai nostri avi ed ai nostri figli. Ma se tu non sarai il Re che noi vogliamo, sappi che non basterà più l’oblio dell’esilio volontario a lavare la tue colpe». Così e non altrimenti ha il dovere di parlare chi si accinga a dare il suo voto per la conservazione della monarchia.


Luigi Einaudi

Uno dei Padri della Costituzione Italiana

2° Presidente della repubblica


31 ottobre 2022

L'ESERCITO IN GRIGIO-VERDE


Le uniformi contraddistinguono una forza armata e la caratterizzano: l'uniforme è legata al compito che gli è stato affidato, all'organizzazione, alla situazione in cui viene usata, alla disciplina e alla mentalità del tempo. Viene influenzata dal clima e ne conseguono tenute estive e tenute invernali, l'ambiente la differenzia adattandola a quelli artici e alle zone tropicali e varia seguendo l'evoluzione degli armamenti. Verso la fine del milleottocento avvenne una forte spinta evolutiva nelle armi, con i fucili a ripetizione che univano alla rapidità del tiro, maggiore potenza e precisione, con le mitragliatrici capaci di sviluppare un'azione intensa e micidiale per rapidità di tiro e per estensione di bersaglio e e con l'aumento della potenza distruttiva e della gittata delle artiglierie ma, ancor più importante, con la scoperta delle polveri senza fumo, balistite e cordite, che non provocavano le dense cortine fumogene, tipiche della polvere nera, nelle esplosioni. Tali innovazioni portarono al superamento delle tattiche di combattimento fino ad allora usate e sui campi di battaglia non si mandarono più avanti le formazioni compatte, ma si impiegarono le unità in formazioni libere. Il nuovo modo di fare la guerra indusse a rendere meno visibili i singoli soldati e, ai vertici dei vari eserciti, si cominciò a considerare la necessità di modificare le uniformi fino ad allora in uso, passando dalle troppo evidenti divise sui campi di battaglia sgombri dalle dense cortine di fumo, a delle uniformi mimetiche, meno individuabili nell'ambiente. Il primo ad adottare una uniforme cromaticamente inserita nell'ambiente fu l'Esercito Russo, a seguito delle forti perdite subite nella guerra con l'Impero Giapponese del 1904/05 a causa delle vistose divise sul terreno sgombro da cortine fumogene. All'inizio del novecento la divisa in uso nell'Esercito Italiano, benché regolamentata dalla riforma del 1871, conservava ancora molte delle caratteristiche introdotte alla sua nascita nel 1861, tutte le armi del giovane Esercito Sabaudo, sia quelle a piedi, che quelle a cavallo e quelle tecniche, risentivano ancora delle tradizioni dall'Armata Sarda e in modo particolare nell'abbigliamento, in molti casi caratteristico e appariscente. Ai cambiamenti in atto negli eserciti europei si interessò un civile, il presidente del Club Alpino Italiano, Luigi Brioschi che propose, per le truppe Alpine, una uniforme con foggia più funzionale e di colore tale da confondersi con l'ambiente circostante. Brioschi sottopose delle uniformi, confezionate a sue spese, al tenente colonnello Donato Enza, comandante del Battaglione Alpino Morbegno e al comandante del 5° Reggimento Alpini, il Colonnello Francesco Strazza, che interessati al progetto, le fecero indossare agli alpini di un plotone della 45°compagnia al comando del tenente Tullio Marchetti, che durante la grande guerra sarà a capo dell'Ufficio Stampa della 1^Armata. Nelle prove di avvistamento apparve chiaramente la difficoltà di individuazione del plotone e in quelle di tiro risultò difficile distinguere e colpire, a 600 metri, le sagome con quei nuovi colori. In seguito venne sensibilizzato il Ministero della Guerra che valutò tale innovazione in occasione delle manovre dell'esercito, confermandone la validità. Vinte anche le resistenze degli ambienti militari più conservatori, si giunse all'adozione della nuova uniforme con la circolare del Giornale Militare Ufficiale n. 458 del 4 dicembre 1908, per fanteria, alpini, bersaglieri e artiglieria e con la successiva circolare n.97 del 3 febbraio 1909 l'uniforme venne estesa anche alla cavalleria. L'uniforme del Regio Esercito assunse la colorazione grigio-verde nello stesso periodo in cui anche negli altri eserciti si procedeva all'adozione di tenute di tipo mimetico, così avvenne nell'Esercito Imperiale Tedesco (Kaiserreichsheer) che adottò il feldgrau, un grigio chiaro verdognolo e nell'Esercito Imperiale Russo (Russkaja imperatorskaja armija) che, dopo la guerra con il Giappone, sostituì il vistoso bianco delle giubbe con il verde oliva. L'Esercito Inglese (British Army) adottò il monocolore kaki per le uniformi nel 1905, di seguito anche l'impero Austro-Ungarico scelse per il suo Esercito (kaiserliche und königliche Armee) prima un grigio-azzurro l'hechtgrau per sostituirlo, nella grande guerra, con il feldgrau. Ultimo, dopo qualche anno, l' Esercito Francese (Armée de Terre) che soltanto nel 1914 deciderà di introdurre il drap Blue Clair, poi conosciuto come blue horizon.

Uniforme di marcia e di campagna del Regio Esercito modello 1909

All’inizio del 1900 l’Italia aveva un esercito di leva; il sevizio militare era obbligatorio, durava tre anni ed era rivolto agli uomini, dai 19 ai 38 anni, abili nelle tre classi di leva. Per tutti i soldati del Regio Esercito l'uniforme da guarnigione in uso era rimasta, senza grandi modifiche, il modello 1871 che si componeva di una giubba turchina, ampia e comoda, "ma in modo che si acconci con garbo alla persona", ad un petto con colletto in piedi su cui erano applicate le stellette a cinque punte, istituite con Regio Decreto del 3 dicembre 1871, era chiusa da una bottoniera nascosta di cinque bottoni, mentre i calzoni erano in tela più o meno chiara a seconda delle armi. 



L'armamento individuale consisteva nel fucile Vetterli-Vitali modello 1870/87 mono colpo calibro 10,35 x 47 mm, completo della lunga sciabola-baionetta innestabile. Il nuovo regolamento dei capi di vestiario venne divulgato con la circolare n. 386 del 22 settembre 1909 e iniziò la graduale distribuzione dell'uniforme grigio-verde definita Uniforme di marcia e di campagna del Regio Esercito modello 1909. Sarà impiegata in combattimento, corredata di elmetto coloniale, nel 1911 in Libia e l'esperienza fatta nella guerra contro l'Impero Ottomano (1911-12), favorì la successiva revisione dell'armamento e dotazioni dell'esercito. Il cambio delle uniformi venne completato, dopo un periodo di accavallamento fra vecchie e nuove uniformi, a partire dal 1913 e la nuova tenuta era composta da una giubba ed un pantalone di panno pesante grigio-verde, con piccole differenze se destinata ad armi a piedi (fanteria, alcune specialità di artiglieria e genio) o armi a cavallo (cavalleria, artiglieria e carabinieri). La giubba veniva indossata sopra un gilet, sempre in panno grigio-verde, con collo a V ad un petto e con due taschini, chiuso con una fila di cinque bottoni, sotto al gilet era indossata la camicia con cravatta a solino bianco. 



Il corredo era completato dalla buffetteria che comprendeva cinturino, giberne, bandoliera verniciati in grigio-verde ed inoltre, una borraccia in legno mod.1907 Guglielminetti, un tascapane in tela a tracolla e lo zaino dove era riposto il corredo personale, detto il “bottino”. Al momento dell'intervento italiano nella prima guerra mondiale, nel Regio Esercito l'uniforme divenne, in linea generale, uguale per tutti i componenti; con la stessa foggia veniva vestito, sia il Re che l'ultima recluta e tutti portavano, anche se con diverse differenze tra ufficiali e truppa, lo stesso berretto, la stessa giubba, gli stessi pantaloni, le stesse fasce gambiere.

L'equipaggiamento da truppa nella grande guerra

Nella prima guerra mondiale il militare di truppa del Regio Esercito indossava una uniforme grigio-verde modello 1909 per truppa che si componeva di una giubba a un petto chiusa da bottoni in cartone pressato, non aveva tasche e sul bavero in piedi erano cucite le mostrine, introdotte con Decreto Ministeriale il 24 aprile 1902, di forma rettangolare e completate da una stelletta a cinque punte. Le spalle della giubba erano rinforzate e all'attaccatura delle maniche portava cuciti gli spallini o salsicciotti che avevano lo scopo di impedire agli spallacci dello zaino o alla cinghia del fucile di scivolare. Sulla vita scendevano due spacchi laterali provvisti di bottoni e nell'interno, foderato in tela di cotone, c'erano due tasche chiuse a bottone destinate a contenere i pacchetti medicazione. I pantaloni erano lunghi e stretti alla caviglia da due laccetti, venivano ricoperti inferiormente dalle fasce mollettiere avvolte fin sotto il ginocchio, per le armi a cavallo erano previsti dei gambali in cuoio nero chiusi da cinghie. Le fasce mollettiere servivano per proteggere polpacci e stinchi da urti e graffi, nonché a evitare che l'acqua penetrasse all'interno degli scarponi. Venivano indossate sopra al bordo superiore degli scarponi e avvolte intorno alla gamba fin sotto al ginocchio ma presentavano alcuni problemi pratici, nell'ambiente di trincea assorbivano acqua e si gonfiavano, interferendo con la circolazione e, una volta asciutte, tendevano a cadere. I piedi venivano avvolti nelle “pezze da piedi”, strisce di stoffa utilizzate come delle calze e li tenevano freschi d’estate e caldi d’inverno, la loro forma poteva essere quadrata o triangolare di circa 40 cm di lato, se quadrate o di circa 75 cm, se triangolari. Le pezze, oltre ad essere più economiche e semplici da realizzare, si asciugavano più velocemente dei calzini ed erano più resistenti all'usura, l'inconveniente maggiore consisteva nelle eventuali pieghe che si formavano facilmente durante la marcia, causando rapidamente vesciche o escoriazioni. Le calzature consistevano in stivaletti modello 1912 con gambaletto alto, in cuoio naturale scurito dall'ingrassaggio per impermeabilizzarli, avevano suole chiodate con bullette a testa tonda, per le truppe alpine erano più pesanti e con una chiodatura rinforzata. Il copricapo per tutti i militari durante il servizio, ad esclusione dei Carabinieri che avevano la lucerna, gli alpini che mantenevano il cappello con la penna e i bersaglieri il piumetto, consisteva in un cappello in feltro con visiera e sottogola chiamato per la forma, “cupolino” o “scodellino”. 



Il soldato, sulla linea del fronte, era obbligato ad indossare l'elmetto metallico Adrian modello 1915 di acciaio con spessore 0,7 mm che all'inizio del conflitto veniva importato, in via sperimentale, dalla Francia e distribuito in numero limitato (6 per compagnia). Dal 24 aprile 1916 verrà adottato e prodotto in Italia assumendo la denominazione di “elmetto metallico modello 1916”, si differenziava di poco dal francese ma era di acciaio più scadente, venne distribuito in larga misura e, a partire dal 1917, era completato con una foderina antiriflesso in tela grigia. Altri elmetti furono introdotti, come il pesante elmo Farina in acciaio dello spessore da 1,1 a 1,7 mm, ideato dall'Ing. Farina fu costruito a Milano in due taglie: il peso della piccola era di circa 1850 gr, contro i 2250-2400 gr. della grande ne esistevano varianti con piastre verticali para-nuca e para-fronte arrotondate. L'arma principale era il fucile Carcano modello 91, e l’alone leggendario che lo avvolse lo fece diventare un simbolo del nostro esercito, sostituì il fucile Vetterli-Vitali Modello 1870/87 e nacque nelle Fabbriche di Armi dello Stato. Il Carcano modello 1891 lungo divenne ufficialmente il fucile standard della fanteria italiana il 29 marzo 1892 (resterà in uso fino al 1945), in seguito furono adottati il moschetto da cavalleria (15 luglio 1893) e la carabina T.S.(truppe speciali, 6 gennaio 1900). L'arma prendeva il nome da Salvatore Carcano della Fabbrica d'Armi di Torino che lo progettò in collaborazione col generale Parravicino dell'Arsenale di Terni, era una carabina con sistema di caricamento Mannlicher a pacchetto con otturatore girevole-scorrevole, pesava 3,850 Kg ed era lungo 1280 mm, il funzionamento era a ripetizione manuale con serbatoio a pacchetto-caricatore con piastrina di 6 colpi calibro 6,5 x 52 mm. La canna era lunga 780 mm, aveva la rigatura con andamento destrorso con tacca di mira regolabile e mirino fisso ed era montata su un calcio costituito da un monopezzo in noce, faggio o frassino. Il soldato veniva dotato anche di una baionetta innestabile sul fucile, con l'adozione del fucile mod. 1891, la lunga "sciabola-baionetta modello 1870" d'epoca risorgimentale venne sostituita da una nuova, ridisegnata e concepita per un uso più funzionale alla nuova strategia di combattimento. La “Baionetta Modello 1891”, aveva una lama lunga 30 cm e la guardia terminava, nella parte inferiore, con l’anello di tenuta per l'innesto sul fucile, l'impugnatura aveva guancette in legno lisce tenute in sede da due rivetti, la lunghezza complessiva dell’arma non superava i 41 cm ed era riposta in un fodero di cuoio nero con finimenti d'ottone appeso al cinturino da truppa mod. 1891. Nel corso della guerra vennero prodotte delle baionette "Ersatz", ovvero semplificate per economizzare le materie prime e velocizzare la produzione, potevano essere completamente metalliche, fuse in un sol pezzo, oppure formate da un manico metallico tubolare sul quale erano innestate lame di recupero dei vecchi fucili Vetterli. I sottufficiali di truppa avevano in dotazione anche una pistola a rotazione: il Revolver Bodeo mod. 1889 tipo A da truppa 1^ serie priva di ponticello e con grilletto ripiegabile, soprannominata per la forma “osso di prosciutto”, veniva portata nella fondina fissata al cinturino o alla bandoliera. La buffetteria per le armi a piedi, in cuoio verniciato in grigio-verde e destinata a rendere possibile o più agevole portare le armi e le munizioni, comprendeva un cinturino al quale venivano appese due coppie di giberne mod.1907 che contenevano 16 caricatori da 6 cartucce ed erano agganciate ad una bretella di sospensione per sostenerle, per le armi a cavallo e l'artiglieria erano previste bandoliere a tracolla con porta caricatori a quattro tasche. Sempre a tracolla veniva portato anche un tascapane mod. 1907 in tela impermeabilizzata grigia che conteneva: una pagnotta, un fazzoletto, un paio di calze di lana, gallette e vari generi alimentari in appositi sacchetti, una tazza di latta. Appesa al petto trovava posto una scatola di latta che conteneva la maschera a protezione unica per la difesa dai gas, sulla scatola c'era una scritta ammonitrice: “chi si leva la maschera muore tenetela sempre con voi”. Il fronte Italiano era prevalentemente montano e si estendeva anche ad alte quote, ai reparti esposti a quei climi rigidi venivano dati in dotazione, oltre ai cappotti e alle mantelline in uso normale per l'inverno, pesanti pastrani in pelle di pecora con pelo rivolto all'interno completi di guanti, passamontagna e voluminose sovra calzature per combattere il freddo. La guerra in montagna portò al diffondersi di indumenti che, oltre a difendere dai rigori delle alte quote, potessero mascherare il soldato nell'ambiente innevato. Si provvide all'introduzione, nel corredo dei reparti combattenti in quota, di gabbani in tela bianca impermeabile con cappuccio, di passamontagna in lana con viso coperto e guanti monchini a moffola in lana pesante pettinata, di scarponi con gambali in tessuto impermeabile e di ramponi da ghiaccio a sei e otto punte da applicare alle suole. La diffusione di tute mimetiche bianche, chiamate costumi, venne successivamente integrata da un equipaggiamento più specifico, a seguito dell'organizzazione di corsi per “skiatori” che avevano in dotazione sci lunghi circa due metri e larghi otto centimetri, con attacchi Huitfeld e due bastoni in bambù. L'equipaggiamento era completato dallo zaino mod.1907 in tela impermeabile grigio-verde, con rinforzi in cuoio e metallo, che conteneva gli accessori per la pulizia personale e dell'arma, le razioni di cibo di emergenza e ulteriori caricatori, un quarto di telo da tenda per uso individuale o in gruppo di quattro teli a formare una tenda completa e, molto importante per ogni soldato, la gavetta mod.1896, completa di gavettino, cucchiaio e coperchio, che diventava il piatto. La gavetta degli alpini e dell'artiglieria da montagna, mod. 1872, era più che doppia, il regolamento prevedeva che in montagna un soldato portasse il rancio per due e quello sgravato del peso della gavetta portava la legna da ardere. Il vestiario comprendeva panciere, corsetti di lana, guanti, sciarpe, una coperta individuale che, arrotolata, veniva fissata con cinghie sopra allo zaino al cui fianco veniva appeso il picozzino-zappetta. Dal 1916 venne fornita una vanghetta da sterro, in lamiera di acciaio, nell'impugnatura sette tacche numerate distanti una dall'altra 5 cm per misurare e verificare con immediatezza lo scavo compiuto, l'attrezzo ben riuscito per l'uso per cui era stato progettato, in trincea, per la sua compattezza, diventava un'arma micidiale nei combattimenti corpo a corpo. A tutti i militari di truppa veniva consegnato un piastrino di riconoscimento, un primo tipo venne adottato con circolare n. 207 del 5 novembre 1892, consisteva in una lamina di zinco rettangolare che veniva cucita nella giubba e riportava i dati del militare scritti con inchiostro zincografico indelebile. La circolare n. 299 del 22 maggio 1916 dispone un nuovo tipo di piastrino costituito da una sottile custodia rettangolare di latta cromata apribile, da portare al collo, che conteneva un documento cartaceo ripiegato dove erano annotati i dati del militare e le vaccinazioni.

Gli Ufficiali

Gli ufficiali del Regio Esercito indossavano una uniforme da combattimento in panno grigio-verde in osservanza alla circolare del comando supremo n. 3338 del 10 settembre 1915, in sostituzione della divisa in cordellino che li rendeva facilmente distinguibili dalla truppa. La circolare stabiliva che la giubba degli ufficiali fosse la stessa della truppa e priva di tasche, ma in seguito fu concesso di applicare esternamente alla giubba da truppa quattro tasche e nel tempo le varianti furono comunque numerose, poiché le uniformi degli ufficiali erano spesso confezionate da sartorie private. La giubba da ufficiale aveva un taglio simile a quella in cordellino, con quattro tasche esterne, due all'altezza del petto e due ai fianchi, applicate a toppa con soffietto e chiuse con bottone, sul retro era provvista di una finta martingala cucita e di uno spacco centrale. Le spalle erano guarnite con controspalline semi fisse, chiuse con bottone e portavano un riquadro di tela nera con ricamato il numero della compagnia di appartenenza. Sul bavero venivano applicate le mostrine mentre i distintivi di grado, costituiti da stellette ricamate in canutiglia, vennero spostati dalle spalline alla parte anteriore dei paramani, al fine di rendere meno visibile il grado da ufficiale dai cecchini austriaci. Sotto la giubba di solito veniva indossata una camicia di cotone bianco con collarino sostituibile, i polsini erano chiusi da gemelli. 



L'ufficiale indossava pantaloni in panno, corti e stretti sotto il ginocchio, la parte inferiore delle gambe era avvolta con fasce mollettiere e calzava stivaletti mod. 1912 con suola chiodata, in alternativa venivano indossati stivali o gambali, verso la fine della guerra gli ufficiali vennero autorizzati ad indossare, a somiglianza degli eserciti alleati, un cinturone di cuoio marrone all'inglese “Sam Browne”. Ad ogni ufficiale veniva consegnata una tessera personale di riconoscimento, il documento conteneva i dati anagrafici, la fotografia, il grado e l'unità che l'aveva rilasciata. In battaglia gli ufficiali non portavano più la sciarpa azzurra, la cui origine è da attribuirsi al duca Emanuele Filiberto di Savoia “Testa di Ferro” nel 1572, eliminando così l'antica consuetudine di mostrare al nemico i colori del loro signore. Il copricapo di servizio era il berretto a chepì, che rimarrà in uso fino al 1933, ma in linea avevano l'obbligato di indossare l'elmetto Adrian grigio-verde con fregio frontale. Il corredo dell'ufficiale e gli effetti personali erano contenuti nella cassa corredo, affidata alle cure dell'attendente, che seguiva l'ufficiale sui mezzi di trasporto dell'unità di appartenenza. Nel corso della guerra gli ufficiali conservarono inizialmente la sciabola, opportunamente brunita e appesa al cinturone, successivamente vennero armati, fino al grado di maggiore, con moschetto e bandoliera a due giberne. L'arma d'ordinanza era una pistola, assicurata al correggiolo di cuoio passante intorno al collo e conservata nella fondina appesa al cinturone mod.1914 da ufficiale in cuoio grigio-verde. con fibbia brunita recante in rilievo l'aquila di casa Savoia. All'inizio del conflitto erano in dotazione già diversi modelli di revolver, nel corso della guerra vennero introdotti nuovi modelli di pistole semiautomatiche e automatiche:

-La rivoltella a rotazione Chamelot-Delvigne, denominata ufficialmente Pistola a rotazione modello 1874, di fabbricazione svizzera con calibro 10,35 mm, che nel dicembre del 1886 Carlo Bodeo modificò. rendendola più sicura e facilmente smontabile. Diventò ufficialmente la Bodeo modello 1889 da ufficiale calibro 10,35 con ponticello e fu l'arma d'ordinanza in dotazione a ufficiali, dagli ultimi anni del'800 fino alla prima guerra mondiale.

-Il revolver Tettoni o Arma di rincalzo del Regio Esercito modello 1916 calibro 10,35 mm, costruita in Spagna dalla Hermanos Orbea, era una pistola massiccia chiamata la “sfondaelmetti”.

-La Glisenti modello 1910 calibro 9 mm, fu la prima pistola semiautomatica d’ordinanza del Regio Esercito, si dimostrò un'arma eccellente e semplice da maneggiare, venne soprannominata la Luger dei poveri.

-La pistola automatica Beretta modello 1915, della Fabbrica d'Armi Pietro Beretta, brevettata il 29 giugno 1915, fu subito adottata dal Regio Esercito, prodotta prima con calibro Glisenti 7,65 mm, poi 9 mm nel modello 1917, venne adottata anche dalla Regia Marina al posto della pistola Brixia modello 1913.

Gli Arditi

Dopo la pesante sconfitta del Regio Esercito a Caporetto e la rovinosa ritirata fino alla linea difensiva del Piave, emerse la necessità di ridare morale alle file di un esercito meno coeso a seguito di quei disastrosi avvenimenti. Nel 1917 vennero creati i Battaglioni d'Assalto, mutuati dalle Sturmtruppen, le speciali truppe d'assalto dell'Esercito Tedesco, "per cambiare l'organizzazione della battaglia offensiva". La nascita dei battaglioni d'assalto deriva dalle sperimentazioni fatte sul campo da brillanti ufficiali italiani, stanchi della guerra di trincea. Vennero messe in pratica nuove tecniche di combattimento e anche l’uniforme fu studiata in modo da essere più funzionale e distintiva. I militari indossavano una “giubba per arditi mod. 1917” confezionata per i reparti d'assalto, derivata dalla giubba mod. 1910 per bersaglieri ciclisti ma a collo risvoltato e aperto, per permettere una migliore aerazione del corpo, che portava cucite le stellette e le fiamme distintive di quei reparti. La giubba era provvista di contro spalline semi fisse ed aveva due tasche a toppa sul petto, sul retro c'erano due spacchi laterali provvisti di bottoni e una grande tasca alla cacciatora ricavata in fondo alla falda. Sulle maniche, oltre ai gradi, era cucito il distintivo della specialità, un gladio romano con ricamato in lana nera il motto F.E.R.T. di casa Savoia e circondato da una fronda d'alloro e una di quercia, sotto la giubba veniva indossato un maglione di lana grigio-verde con collo alto a coste. I pantaloni erano del tipo per truppe da montagna, ampi e terminanti sotto al ginocchio, stretti da due fettucce, mentre la parte inferiore delle gambe era protetta da calzettoni di lana grigio-verde. L'Ardito calzava stivaletti da montagna in cuoio naturale con suola chiodata e indossava un elmetto mod. 1916 d'acciaio ricoperto da una foderina in tela. L'armamento individuale era costituito dal moschetto mod. 1891 T.S. o da cavalleria, completo di baionetta a spiedo, pieghevole, fissata stabilmente all'estremità della canna.



 L'arma più caratteristica in dotazione era il pugnale, ricavato dall'estremità della lama delle lunghe baionette mod. 1870 del fucile Vetterli, accorciate perché troppo ingombranti per il tipo di guerra che conducevano. Disponevano però anche di armi speciali come la Fiat mod. 1915 Villar Perosa, la prima pistola mitragliatrice, progettata nel 1914 dal capitano Abiel Bethel Revelli di Beaumont, che aveva caratteristiche del tutto rivoluzionarie: univa infatti alla micidiale cadenza di fuoco, il munizionamento per pistola e la possibilità di essere trasportata a tracolla. Al cinturino da truppa venivano agganciate una coppia di giberne contenenti 8 caricatori per il moschetto, sostenute da passanti semi fissi della giubba, sempre a tracolla veniva portato il tascapane mod.1907 grigio-verde per contenere le bombe a mano che, se poco diffuse all'inizio della guerra, subirono una crescente importanza per diventare uno degli armamenti più usati dagli assaltatori. Le bombe a mano si dividevano in due tipi, quelle difensive con effetto ad ampio raggio per cui il lanciatore doveva ripararsi e quelle offensive, che erano lanciate allo scoperto e anche di corsa, dato lo scoppio immediato all'urto, ma con un effetto di minor raggio. Dall'inizio del conflitto ne furono introdotti vari tipi, i più diffusi tra gli Arditi erano: il petardo Thévenot2 e la bomba Excelsior Thevenot P2 detta la ballerina di progettazione francese, il Petardo Offensivo con innesco Olergon, la bomba lenticolare Spaccamela e quella a frammentazione SIPE (Società Italiana Prodotti esplosivi) di produzione Italiana, la granata Carbone, versione italiana della Zeitzunder austriaca. Gli Arditi portavano a tracolla, nella sacca di tela o nella scatola di latta, la maschera polivalente Z a protezione unica modello 1917, che aveva la forma di un imbuto in tela gommata, ricopriva interamente le guance e incorporava gli occhiali in celluloide. La maschera conteneva 60 strati di garza tampone imbevuta di sostanze neutralizzanti e aveva sostituito la monovalente Ciamician-Pesci, introdotta all'inizio della guerra e inefficace contro il gas fosgene che, usato dagli austro-ungarici negli attacchi al monte S. Michele il 29 giugno 1916, provocò circa 6000 vittime. Nell'ultimo anno di guerra vennero distribuite maschere antigas M2, di produzione francese a 32 strati di garza tampone imbevute di ricinato di ricino, contro fosgene, cloro e acido cianidrico, arrivarono anche le più efficienti SBR (small box respirator) inglesi in tela e gomma sintetica con filtro di carbone attivo e occhiali in vetro. L'uniforme indossata nel corso della grande guerra rimase in uso nell'Esercito Italiano, quasi invariata, ancora per molto tempo, fino alla riforma dell'esercito del 14 novembre 1933 a firma del sottosegretario al Ministero della Guerra, generale Federico Baistrocchi.


 

23 settembre 2022

IL SERGENTE NELLA SABBIA


Corsi e ricorsi dei cicli storici” è la teoria dove si sostiene che alcuni accadimenti si ripetono con le stesse modalità anche a distanza di tanto tempo e questa volta ne troviamo conferma nella storia militare del Sergente carrista Roncagalli Giovanni di Egidio, classe 1914, combattente e reduce, ma anche (e qui scatta l'intrigante parallelismo) , padre del caporalmaggiore carrista Roncagalli Pierluigi, socio ANCI della sezione “MOVM Francesco Tumiati” di Ferrara.

La storia si ripete a distanza di molti anni, c'è un filo che li unisce, sono stati entrambi carristi: il padre Giovanni, ha partecipato alle campagne di guerra in Africa, effettivo al XX° Battaglione Carri nel 1935 e al 133° Reggimento Carristi nel 1942, il figlio Pierluigi ha svolto il servizio di leva a Cordenons nel 1972 al LXIII° Battaglione Carri.

Roncagalli Giovanni nasce a Guarda Veneta in provincia di Rovigo il 24 novembre 1914 è un giovane che ha voglia di fare e appena gli è possibile si trasferisce a Ferrara dove trova lavoro come falegname e si sposa.

Nell’aprile del 1935, come molti giovani della sua classe, risponde alla chiamata alle armi ed è inviato al Reggimento Carri Armati in Bologna, una specialità del Regio Esercito moderna, potente e tecnologica e che, anche già dal motto “Pondere Et Igne Iuvat”, suscitava entusiasmo e orgoglio nei giovani che ne facevano parte e difatti il Roncagalli, già nell'agosto di quell'anno, viene promosso caporale per il suo impegno.

In quegli anni il regime tendeva a sviluppare la politica coloniale dell'Italia, che, già dalla fine del secolo precedente, possedeva le colonie di Eritrea e Somalia, arrivando a dichiarare guerra all’Etiopia e ad invaderla.

Per esigenze di prestigio vengono inviate in quella regione, al comando del generale Emilio de Bono, rimpiazzato poi dal maresciallo Pietro Badoglio, le migliori truppe per modernità di mezzi, tra cui i reggimenti di Fanteria Carrista.

Il Reggimento di cui fa parte il caporale Roncagalli viene imbarcato a Napoli il 28 settembre 1935 con destinazione il Corno d’Africa e sbarca a Massaua il 9 ottobre 1935 .

Nella Somalia Italiana vengono formate le unità per l’invasione dell’Etiopia e il caporale si ritroverà nelle sabbie Etiopi in forza al XX° Battaglione Carri d'Assalto “Randaccio” che si distingue in più occasioni, soprattutto nella battaglia dello Scirè.

Roncagalli verrà promosso caporalmaggiore e riceverà la croce al merito di guerra e la medaglia commemorativa della campagna di guerra dell’A.O.I. Alla fine delle operazioni, però il XX° Battaglione Carri non viene rimandato in Italia, rimane dislocato a Mogadiscio al comando del colonnello Salvatore Zappalà e Giovanni viene trattenuto in servizio fino al mese di agosto 1937 quando, finalmente viene imbarcato per l’Italia dove verrà congedato il 2 dicembre dello stesso anno.

Rientrato a Ferrara ritorna alla vita civile, alla famiglia e ad un nuovo lavoro nelle ferrovie di stato, ma di li a pochi anni nuove nuvole di guerra si addenseranno nei cieli dell'Europa che porteranno alla seconda guerra mondiale e l’Italia entrerà nel conflitto il 10 giugno 1940.

Nel dicembre 1940 Roncagalli viene richiamato alle armi e inviato al 1° Reggimento di Fanteria Carrista e nel giugno 1941 arriva la nomina a sergente e il trasferimento a Parma in forza al 33° Reggimento di Fanteria Carrista nell'antica caserma della “Pilotta” (ex Palazzo Farnese).

Alla fine di agosto del 1941 il reggimento entra a fare parte della neo costituita 133° divisione Corazzata “Littorio” che, dopo un periodo di addestramento nel Pordenonese e nel Brindisino, verrà inviata in Africa Settentrionale.

L'esercito, in Africa del Nord, dopo i successi conseguiti nel 1940 al comando del maresciallo Rodolfo Graziani, subisce le offensive degli inglesi e richiede l'invio di nuove unità dall'Italia.

Il 13 gennaio 1942 il sergente Roncagalli sbarca a Tripoli al seguito del 133° Reggimento Carrista per affrontare le sabbie della Libia poi, nell'aprile 1942 q il X° battaglione carri M, di cui fa parte, viene ceduto in forza al 132° Reggimento Carristi “Ariete”.

L’unità corazzata prenderà parte alle operazioni che culmineranno con la battaglia di El Alamein, dove verranno pesantemente colpite le divisioni corazzate italiane Ariete e Littorio, il 5 novembre 1942 Roncagalli viene catturato dagli inglesi e avviato verso la prigionia.

Il 27 novembre 1942 Roncagalli si trova insieme a tanti altri italiani nel campo di prigionia di Elvuan in Egitto, vi rimane fino al maggio 1944 quando viene trasferito nel tristemente noto campo n.309 di El Quassasin dove rimarrà rinchiuso fino alla fine della guerra.

Soltanto nel luglio del 1946 viene rimpatriato in Italia e potrà ritornare a Ferrara dove, nel settembre nel 1946, è posto definitivamente in congedo

Nel novembre 1955 viene concessa al sergente in congedo Giovanni Roncagalli una seconda croce al merito di guerra. 

03 marzo 2022

I mandurlin! Quei dolci che solo li!

 


Il paese, quel paese, si trovava poco distante dal suo luogo d'origine, le devastazioni dell'ultima guerra avevano indotto a creare un nuovo borgo, piuttosto che ricostruire sulle macerie ma era, come da sempre adagiato, come un gatto sornione, in quella vasta distesa piatta dove confluivano le correnti che, discendendo dalle montagne, si mischiavano con i venti in arrivo dal mare.
Il borgo negli anni si era esteso riappropriandosi di parte degli antichi quartieri a ridosso dell'argine del grande fiume e lì, in quella zolla di terra grassa e umida, se ne stava immerso in quel crocevia di umori e influenzato da fenomeni difficilmente riscontrabili altrove dove, nel caldo afoso delle estati e nella nebbia gelida degli inverni, assisteva imperterrito al ripetersi del miracoloso fenomeno della vita.
Quel paese era né più, né meno, simile a tutti i paesi della pianura, abitato da diverse centinaia di anime diverse, fatto e compiuto con tutto ciò che di solito si trova nei paesi di pianura.
Nel paese, il dottore, insieme al parroco, al notaio e al maresciallo dei carabinieri, era un'istituzione, una figura romantica, amata e rispettata.
Il dottor Arbaltini era il “medico condotto” e prestava assistenza sanitaria ai residenti nel territorio comunale, cioè, la Condotta. Di solito lo si poteva trovare in ambulatorio fino a tarda sera e, sovente, lo si incrociava in giro per il paese, a passo svelto, con in mano la borsa di pelle, da dottore.
Per sua abitudine faceva ogni settimana il giro di quei suoi assistiti che, per età o stato fisico, riteneva di dover seguire con particolare attenzione, andando a visitarli al loro domicilio.
Quel giorno, il dottor Arbaltini, aveva deciso di iniziare il suo giro di visite andando dalla signora Adelina, la Lina per tutti i paesani e anche per lui, che aveva avuto modo di visitarla pochi giorni prima per una distorsione ad un piede e voleva sincerarsi del suo stato.
Ah! La signora Adelina, la sempre disponibile e onnipresente Lina, lui l’aveva conosciuta e apprezzata fin da ragazzino, quella gioviale donna sempre sorridente, ma con quel carattere forte che gli aveva permesso di superare le dolorose prove alle quali la vita l’aveva sottoposta.
La casa dell’anziana signora si trovava un poco oltre le ultime case del paese dopo la strada che portava al ponte sul fiume.
Al tempo in cui quella casa era stata costruita, era molto più isolata ma, con il passare degli anni, il paese aveva continuato a crescere spingendosi sempre più vicino, con sempre nuove costruzioni,
Ormai avanti negli anni, l’Adelina, abitava da sola nel grazioso villino che davanti aveva un giardino alberato e ben tenuto, con le aiuole dove facevano bella mostra dei rigogliosi e profumati cespugli di rose antiche.
Dietro alla casa, verso il fiume, c’era l'orto, ben ordinato e suddiviso in parcelle regolari e costeggiate da piccoli sentieri dove, per l'appunto, pochi giorni prima l’Angiolina era inciampata e quasi caduta, mentre raccoglieva le verdure, procurandosi quella distorsione.
Il dottor Arbaltini, dunque, aveva fermato l’auto proprio di fronte al cancelletto del villino che trovò aperto, sembrava che lo stessero aspettando, ed entrò richiudendolo alle sue spalle. Il piccolo vialetto lastricato portava fin davanti all’ingresso della casa e anche il portoncino d’ingresso era aperto, appena accostato, segno che era proprio atteso.-
- Con permesso! Sono il dottore, Adelina. È in casa Lina?-
- Si dottore! Entra pure . . . sono qui, in cucina.-
- Buongiorno Lina, ma . . . cosa sta facendo in cucina? Perché è in piedi?-
- Beh! dottore, il piede non mi fa più tanto male e poi non riesco a stare ferma con le mani in mano.-
- Io mi ero raccomandato che rimanesse a letto, sa bene che non deve gravare sul quel piede.-
- Hai ragione dottore, e mi scuso tanto, ma giuro che appena avrò finito di preparare l’impasto dei mandurlin tornerò a letto fino a mezzogiorno, a riposare. Oh, sì! Riposeremo tutti e due: io e l’impasto, giusto il tempo che ci vuole per preparare me a formare i biscotti e il forno ad accoglierli.-
- Ah! Lina, le avevo prescritto per qualche giorno il riposo assoluto e mi ero raccomandato che se ne stesse a letto o in poltrona e invece? La trovo a impastare dolci!-
- Eh! Dottore, dici bene tu di stare a letto, ma io non ci riesco a stare ferma e poi devo assolutamente fare l’impasto per i mandurlin perché la fortuna ha voluto che riuscissi a trovare delle mandorle amare e dolci, fresche e di buona qualità Ferragnes, proprio come quelle che arrivavano dal Piemonte ai tempi di quando il paese era un porto dello Stato Pontificio, quelle giuste per fare i mandurlin.-
- Ma Lina, ho chiesto apposta alla Rosetta di venire a darle una mano per qualsiasi bisogno, che mi ha assicurato che sarebbe passata ogni giorno per aiutarla.-
- E per questo ringrazio te e la Rosetta, che è una giovane, tanto cara e premurosa e che viene tutti i giorni e oggi mi ha anche portato le uova fresche, così ho potuto montare a neve gli albumi e unirvi quelle buonissime mandorle e adesso, guarda qui! Guarda che meraviglia di impasto, sembra una nuvola nel cielo di aprile!-
-Insomma Lina, si renda conto che per lei non è uno sforzo da poco restare in piedi a impastare uova e mandorle.-
- Ma che sforzo, dai! E ritengo che sia possibile fare entrambe le cose senza fare sforzi né fare danni.-
- Ha! Va bene! E a me non resta che prendere atto della sua decisione e starmene buono e zitto, d'altronde col tempo ho imparato che quando una persona anziana sostiene che qualcosa è possibile ha quasi certamente ragione, per contro quando sostiene che qualcosa è impossibile molto probabilmente ha torto. Dunque non potendo fare niente per farle cambiare idea, continui pure nel suo lavoro.-
- Ma che lavoro, per me è un piacere e comunque, i mandurlin dell’Adelina, se permetti, li fa la Lina; cioè io e ricordati che al Ponte siamo rimasti in pochi a preparare questi dolcetti unici che, spero tu lo sappia, hanno una storia che viene da molto lontano. Pensa che storia eccezionale si portano dietro questi dolci, tanto semplici quanto buoni, forse creati in occasione dell’arrivo di un Papa.-
- Lo so! Conosco la storia, Lina, so bene che, secondo la tradizione, sarebbero stati proposti in occasione della storica visita di Papa Pio IX nel 1857 che, arrivato via fiume, se li gustò nel passeggiare sotto la via Coperta, il lungo porticato che serviva da magazzino per le merci del Porto Franco dello Stato Pontificio. -
- Già si racconta proprio così e tu, caro il mio dottore, che sei nato e cresciuto qui, saprai bene che la via Coperta venne costruita nel 1647 e con i suoi centodieci metri di lunghezza univa il porto al centro del paese. -
-Lo so, lo so Lina, il mio babbo mi raccontava che prima di essere distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, rappresentava il cuore commerciale di questo paese che allora si sviluppava tutto lungo la sponda del fiume.-
- Proprio così! caro il mio dottore e pensare che questi magnifici dolci non sono il risultato di elaborazioni dei pasticceri, sono in realtà il frutto della fantasia e del senso del risparmio di un giovane lavorante della pasticceria, che pensò di utilizzare gli albumi d'uovo rimasti per creare questi dolcetti e gli ingredienti indicati nella antica ricetta sono quelli ancora usati qui in paese: “zucchero bianco fine, mandorle dolci e amare, chiare d’uovo”.
-Certo Lina, lo so bene, come lo sanno tutti i paesani di qualsiasi età che, come dicono spesso, “se non sono così, non sono questi dolci qui”. Nel 1755 lo imparò anche il signor Carlo Goldoni che, sbarcato al porto, provenendo dalla Repubblica Serenissima, alla dogana del Lago Scuro non dichiarò la sua “. . . provvisioncella di cioccolato e di caffè.” che non gli venne confiscata perché già famoso e per le lodi che non risparmiò ai dolci squisiti che gli offrirono al caffè della via Coperta che stava a fianco del dazio.-
- E già, che storia, che passato. Sai dottore, che cosa mi raccontava la mia nonna?-
-Mo fiss-ciula Lina! . . . Scusi, volevo dire Accidenti Lina! Ci mancava anche la nonna, e dal momento che tutto serve per non parlare del suo piede, mi racconti pure dei ricordi della nonna.-
-Allora, la mia nonna materna mi raccontava che quando era un ragazzina, alla domenica dopo la messa, i genitori la portavano nel caffè pasticceria che c'era sotto alla via Coperta, dove si potevano gustare i famosi mandurlin. Era la rinomata caffetteria Apollo del Ferraguti che, sulla sua tomba in certosa volle inciso “ il re della secolare specialità mandorlini”. La caffetteria, oltretutto, stava vicino alla bottega del barbiere, conosciutissima per via del fatto che la barba ai signori la faceva una barbiera, fatto più unico che raro per quei tempi.
-Non divaghi Lina, già siamo passati dal piede, ai mandurlin e alla nonna, se adesso mi comincia ad elencare le botteghe che stavano sotto alla via coperta non ne veniamo più fuori.-
-Va bene, va bene! Allora, la nonna . . . ha! Ecco, capita che una volta, entrando nella pasticceria, vide un signore giovane ed elegante che, seduto ad un tavolino, scriveva su un quaderno mentre assaporava i dolcetti di mandorle. Lei curiosa si avvicinò e lui sorridendo le lesse alcune righe di ciò che stava scrivendo. La nonna non se le era più scordate quelle belle parole e me le ripeteva spesso, e dicevano “Io sono innamorato di tutte le signore, che mangiano le paste, nelle caffetterie.”-
- Detto questo cara Lina, adesso che abbiamo rievocato la storia patria e i ricordi d'infanzia, vogliamo tornare a interessarci della sua salute?-
- Ma che bravo il mio dottore! Che, oltre a prendersi cura dei suoi paesani, non trascura la storia e le tradizioni della sua terra d’origine.-
- E lei non deve trascurare se stessa e ricordarsi che, alla sua età e con i suoi problemi, non ultimo quel malanno al piede, deve rallentare un poco, così avrà davanti più tempo per fare molto altro ancora.-
- Ma va là dottore! Che arrivata a questa età, tutto quello che dovevo fare, l’ho fatto e in quel po’ di tempo che il buon Dio mi regala ancora, faccio quello che voglio, quando ne ho voglia e a modo mio, come del resto, ho sempre fatto. Non è facile cambiare vita dopo averla passata così, per una vita intera e poi, devo insegnare alla Rosaura, che è giovane e volenterosa, a fare i mandurlin, mica ci si può permettere di perdere le tradizioni di questo paese. I mandurlin del ponte si fanno, a Ponte, da più di 150 anni e vorrei che si continuasse a farli per molto tempo ancora.-
- Ah! Che lei faccia quel che vuole non lo metto in dubbio, ma quel piede è ancora un po’ gonfio e per guarire bene deve stare a riposo e ora, se permette, voglio proprio vederlo.-
- Ma stai tranquillo dottore, che i mandurlin li faccio con le mani, per cui al mio piede non rimane niente da dire e non sarà certo una storta presa nell’orto a farmi stare a letto.-
- Caparbia eh! Non vorrei mancale di rispetto, ma potrei dire . . . testona.-
- Lo so, non sei il primo a dirlo e non sarai l’ultimo e adesso siediti e prenditi una tazza di caffè che è ancora caldo, intanto io finisco di amalgamare l’impasto e poi ti faccio vedere questo piede a cui tieni così tanto.-
- Oh, Lina! Se non le volessi bene come alla mia povera mamma, me ne sarei già andato, ragionare con lei è impossibile!-.
- Oh, dottore! Se io non ti volessi bene come a un figlio, ti avrei già mandato a spasso e comunque stai attento, sono vecchia e mi potrebbe sfuggire il mattarello dalle mani . . . non so se mi spiego?-
- Ho capito, cara la mia signora testarda, faccia come vuole, ma se è vero che mi vuole bene, provi a far qualcosa che accontenti anche il suo dottore.-
- Ma certo che voglio accontentare il mio dottore, ci mancherebbe! Infatti i mandurlin li faccio anche per te, che so bene quanto ti piacciono questi dolcetti.-
- E va bene Lina! Faccia come vuole, io vado a fare il giro dei miei assistiti, che è meglio.-
- Ecco, bravo, vai pure a visitare i tuoi malati, che ti stanno aspettando e so bene quanto li hai a cuore. Quando avrai finito, ricordati di ripassare dalla tua paziente testona, che ti vuole un bene dell’anima e che ti farà trovare i mandurlin appena sfornati, caldi e fragranti.-