07 ottobre 2008

L'Artemia del latte


Nei nuovi quartieri incastonati nel reticolo di strade perpendicolari si erano trasferiti anche vecchi esercenti da soli o con i figli ,e tra le varie attività e botteghe una tra le più frequentate era la latteria. Punto di riferimento indispensabile per vecchi e mamme e lattanti ma, dal momento che oltre al latte vendeva anche gelati e dolcium,i era anche il riferimento principale per i bambini. L’avremmo voluta frequentare anche più assiduamente di quanto facevamo ma; c’era un ma che riusciva a dissuaderci dall’insistere troppo davanti alla vetrina. Tutte le mattine che il creatore mandava sulla terra, all’alba e a volte anche prima arrivava, annunciata dal rumore scoppiettante del suo motore a due tempi, “l’Apecar” dell’Artemia. Un motocarro, un trabiccolo a tre ruote in parte verde scolorito ed in parte verde arrugginito, stracarico di cassette di bottiglie di latte. A quei tempi era abbastanza inusuale vedere un lattaio su di un veicolo di quel tipo, se poi ci mettiamo che il lattaio era una lattaia, beh! Il tutto diventava ancor più strano, di difficile comprensione da parte della gente che in parte disapprovava e in parte non capiva. Proprio così! Il latte con il motocarro lo trasportava Artemia, la lattaia, anche se a guardarla bene non aveva nulla di femminile: né nei modi, né nella fisionomia, ancor meno nell’abbigliamento. L’Artemia non era propriamente la lattaia, giacché dietro al banco della latteria a sbrigare tutte le faccende relative alla gestione della bottega ci stava la figlia. l’Artemia era la factotum del negozio, quella che si occupava dei rifornimenti, carico e scarico delle merci, pulizia della bottega compresa l’apertura e la chiusura, insomma, tutto il lavoro pesante che di solito è svolto dal garzone di bottega, era suo. Non faceva comunella con le altre esponenti del gentil sesso presenti nel paese che fossero amiche, conoscenti o solo clienti della latteria. Nella sua vita dell’Artemia c’era posto solo per il suo lavoro, chiacchiere poche, non ne voleva sapere di perdersi in pettegolezzi, civetterie e sparlamenti vari con le altre anzi, spesso le invitava a non sciupare il loro tempo quando le vedeva in crocchio a parlottare. Un bel tipo l’Artemia che, oltre tutto questo e con buona pace dei paesani ,aveva l’abitudine di sfrecciare per le strade del paese a forte velocità, impegnandosi in manovre tanto ardite quanto pericolose alla guida dello scalcinato “Apecar”. L’altro aspetto poco benvisto dai compaesani era che l’arzilla centaura fumava come e più di un turco, delle puzzolenti sigarette perennemente penzolanti ad un angolo della bocca, e per tocco finale al quadro non mancava una occasione per esprimersi con modi e termini da fare arrossire di vergogna uno scaricatore di porto. Da tutto quanto ne veniva fuori un ritratto che non era certamente quello di una tranquilla signora di campagna già in la con l’età ed afflitta da qualche acciacco, come avrebbe dovuto essere l’Artemia se comparata con le coetanee signore che si vedevano allora. Era un po' una sfida entrare in latteria: quando l’Artemia ti rivolgeva la parola a quel modo brusco e con quella voce roca, bruciata dalle sigarette, sobbalzavi di timore e stavi bene attento a come ti comportavi, solo un suo sguardo bastava per raggelare ogni entusiasmo. Il ricordo più ricorrente dell’Artemia,e quello più condiviso da chi la ha conosciuta è legato all’immagine di lei impegnata nel continuo ed incessante movimento mentre scaricava o caricava casse sul piccolo cassone dell’“Apecar”, avvolta da quel lungo grembiule e con in testa un berretto di tela. L’Artemia aveva sempre qualche cosa da fare, non si fermava mai un attimo, non la vedevi mai ferma, però anche se presa in quel suo frenetico movimento trovava sempre tempo e modo per rispondere a tutti quelli che le si rivolgevano. Artemia ci vedeva lontano guardava distrattamente ma vedeva tutto, tutti i particolari, tutte le sfumature di un posto, di una persona di un umore, di una voce . Gli occhi della lattaia erano misteriosi a tutti perché tutti evitavano di guardarla negli occhi, Artemia invece te li ficcava addosso che te li sentivi entrare da un lato e uscire dall’altro, dopo averti rimestato dentro per vedere tutto quello che ti portavi appresso: cuore e cervello, sentimento e ragione. Solo chi è riuscito a fermare per un momento il suo sguardo in quello di Artemia ha visto la grandezza che ci stà nel creato, o meglio: ha imparato a farlo come veramente và fatto, come se gli occhi della burbera signora fossero una scuola dove s’imparava in una sola lezione a vedere oltre il guardare. L’Artemia aveva un cuore così grande che non sarebbe bastato il suo “Apecar” a trasportarlo, quel suo sguardo duro come la pietra era un fondale di carta pesta da teatro dietro al quale ella stessa cercava di nascondere, non so per quale timore, l’amore e la tenerezza che aveva un po' per tutti, ma in particolare per i bambini. Quello sguardo che si apriva in un sorriso quando non perdeva mai un’occasione per farci dono di un confetto o una caramella ogni volta che passavamo davanti alla latteria. Un gigante buono che si nascondeva dietro ad un aspetto minaccioso per timore di dover mostrare il suo vero animo, uno di quei frutti, fuori tutti ispidi e spinosi ma, dentro, di una dolcezza inebriante che una volta assaggiati non puoi più farne a meno.

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