30 dicembre 2024

BABBO NATALE E I SUOI FRATELLI

 


Pochissimi sono a conoscenza di un fatto tanto segreto quanto straordinario: BABBO NATALE non è figlio unico, ha infatti cinque fratelli.

Nessuno lo ha mai saputo perché la notizia è stata tenuta “innevata”.

I cinque fratelli sono molto ma molto diversi da lui e sarebbe davvero imbarazzante se nel mondo qualcuno venisse a scoprirlo.

La cosa è talmente importante che persino le giovani renne ed i nuovi elfi sono obbligati al segreto di apprendiStato.

Fonti ben informate dicono che dietro l’organizzazione che protegge questo segreto ci sia Tale Nababbo, un personaggio misterioso, che nessuno ha mai visto in pubblico.

Io però ne sono venuto a conoscenza casualmente grazie all’ascolto attento dei discorsi che faceva una talpa delle nevi ad un amico.

Ecco la loro storia.

Il primo fratello: BACCO NATALE, sopportava la solitudine delle rigide notti polari soltanto ingurgitando quantità industriali di vodka. Aveva un tasso così alcolico che riusciva a sciogliere la neve alitando.

A Natale era talmente ubriaco che non riusciva a portare i regali perché ne vedeva il doppio e non prendeva mai quelli giusti.

Suo fratello Babbo Natale, dopo diversi tentativi finiti male, lo licenziò.

Il secondo fratello: BAFFO NATALE, si teneva i baffi così lunghi ma così lunghi che gli arrivavano alle caviglie; tutti lo chiamavano Baffone.

Era un po’ strano e i genitori della Lapponia lo nominavano per minacciare i bambini quando facevano i capricci, gridando: “Ha da venì Baffone!”.

Lui, disponibile ed ingenuo, era sempre in giro anche se tutti lo prendevano in giro.

A Natale però non riusciva a portare i regali perché inciampava nei suoi stessi baffi e tutti i pacchetti gli cadevano per terra.

Babbo Natale, dopo molti pacchi rotti, fu costretto a lasciarlo a casa.

Il terzo fratello: BALLO NATALE, era un tipo mondano, non mancava mai alle feste danzanti ed era sempre in pista, scatenatissimo, a dimenarsi e a saltare; stava sempre in movimento, continuamente.

Sudava come una renna e poi si ammalava e gli veniva la febbre, soprattutto il sabato sera.

A Natale non riusciva a portare i regali perché, con tutte le piroette che faceva di continuo, i pacchi gli volavano per aria.

Babbo Natale, ormai stanco, licenziò anche lui.

BATTO NATALE era il quarto fratello; si travestiva pure lui come Babbo ma… non proprio allo stesso modo.

Lui preferiva i vestiti da donna perché era in cerca della sua identità di genere e sentiva il bisogno di comportarsi al femminile.

A volte si sentiva costretto a passeggiare di notte sui marciapiedi ghiacciati per cercare disperatamente compagnia.

Quando arrivava Natale non riusciva a portare i regali giusti perché sceglieva soltanto i cosmetici.

Quindi Babbo Natale lo emarginò, lo discriminò ed infine lo licenziò.

Infine c’era lui: BASSO NATALE, il più piccolo di tutti. Era davvero piccolissimo, tanto che Babbo Natale non riusciva a trovargli una collocazione: prima gli aveva chiesto di portare i regali minuscoli ma lui, con le gambe così corte, inciampava nei nastri e faceva cadere tutto; poi gli aveva chiesto di sistemare le letterine dei bambini nell’archivio ma lui, così piccino, rimaneva sommerso dalle buste.

L’ultimo tentativo lo aveva fatto proponendogli di incartare i dolciumi ma lui rimaneva appiccicato allo zucchero con la barba.

Fu così che Babbo Natale, ormai infuriato, lo cacciò come aveva fatto con tutti gli altri suoi fratelli perché non gli servivano a niente.

I fratelli Natale, rimasti senza Babbo, si sentivano senza famiglia.

Ognuno di loro era solo ed emarginato. Quando si ritrovarono insieme, non sapevano dove andare e allora cominciarono a vagare senza meta.

Ma più vagavano, meno si svagavano.

Meno si svagavano, più girovagavano.

Più girovagavano e meno divagavano.

Stavano proprio male perché pensavano sempre al loro sentirsi soli.

Sembrava proprio che tutto andasse storto e si sentirono ancora più tristi.

Una mattina però, dopo aver camminato tutta la notte in cerca di non si sa cosa, ormai sfiniti si trovarono di fronte ad un vecchio muro diroccato su cui qualcuno aveva scritto con la vernice spray:

“Ancora Umili, Garantendo Unità, Riusciremo Indipendentemente Dall’Indifferenza.

Bisogna Udire Ogni Nuova Energia.

Forza! Esprimiamo Segnali Testardamente Educativi”.

All’inizio non capivano; allora lessero e rilessero.

Basso Natale, che era il più arguto, scoprì che se si leggevano solo le iniziali di quelle parole esse formavano un augurio ma se si leggevano tutte le lettere di tutte le parole, formavano una frase che diventava una speranza.

Lui capì allora che le lettere sono come le persone; da sole sono tutte importanti ma, messe insieme in un certo modo, possono diventare una meravigliosa scoperta.

Lo stesso cominciò a pensare di lui e dei suoi fratelli.

Lo spiegò agli altri; anche loro capirono e si sentirono bene.

I cinque fratelli cominciarono a parlare come non avevano mai fatto prima: parlavano meno del prima e più del dopo, meno del passato e più del futuro.

Immaginarono insieme un domani diverso e fecero proposte concrete per il cambiamento: proposte minime come la statura di Basso e proposte importanti come i mustacchi di Baffo, proposte dinamiche come i movimenti di Ballo e proposte forti come la vodka di Bacco, proposte nuove come l’identità di Batto e proposte coraggiose come la voglia di cambiare che avevano tutti loro.

Ne fecero talmente tante che io non me le ricordo tutte; quello che ricordo è che questa storia non ha un vero e proprio finale ma tanti inizi, tanti quanti se ne riescono ad immaginare e poi a costruire.

Comunque pensiate che quel Tale Nababbo, oltre all’anagramma di Babbo Natale, sia un personaggio di altri tempi…. auguri.


28 dicembre 2024

TI RICORDI QUELLA NOTTE


 

Nel paradiso degli animali l’anima dell’asinello chiese all’anima del bue: “Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…?”

“Lasciami pensare… Ma sì - rispose il bue - nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato”.

“Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?”

“Eh no, figurati! Con la memoria da bue che mi ritrovo”.

“Più di duemila”.

“Accipicchia”.

“E a proposito, lo sai chi era quel bambino?”

“Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino”.

L’asinello sussurrò qualche cosa al bue.

“Ma no! - fece costui - sul serio? Vorrai scherzare spero”.

“La verità, lo giuro. Del resto io lo avevo capito subito…”

“Io no - confessò il bue - si vede che tu sei più intelligente. A me, non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un bambino straordinario”.

“Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo delle serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie familiari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea, già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata?”

“Dove?”

“Giù sulla terra, no!”

“Ci sei già stato?!"

“Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare anche tu. Dopo tutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due”.

“Per via di aver scaldato il bambino col fiato?”

“Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la vigilia”.

“E il lasciapassare per me?”

“Ho un cugino all’ufficio passaporti”.

Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi, lievi. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume, vi puntarono sopra.

Il lume era una grandissima città.

Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro, trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano in mezzo senza danno, e a loro volta le due bestie passavano attraverso come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.

Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava ed usciva, tutti carichi di pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti.

Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.

“Senti amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esseri sbagliato. Qui stanno facendo al guerra”.

“Ma non vedi come sono tutti contenti?”

“Contenti? A me sembrano pazzi”.

“Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi”.

Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro.

Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta a un tavolo, una signora molto preoccupata.

Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto messo metro carte e cartoncini colorati, alla sua destra cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà per smaltirlo? La sciagurata ansimava.

“La pagheranno bene, immagino, - fece il bue - per un lavoro simile”

“Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società”.

“E allora perché si sta massacrando così?”

“Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri”.

“Auguri? E a che cosa servono?”

“Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania”.

Si affacciarono più in là, a un’altra finestra. Anche qui gente che, trafelata, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore. Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando pacchi, spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi altre scatole, altri fiori, altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione, ansia, fastidio, confusione e una terribile fatica.

Dappertutto lo stesso spettacolo.

Andare e venire, comprare e impaccare, spedire e ricevere, imballare e sballare, chiamare e rispondere e tutti guardavano continuamente l’orologio, tutti correvano, tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.

“Ma avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità e della pace”.

“Già - rispose l’asinello - una volta era così. Ma cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali!”

Il bue tese le orecchie. Per le strade, nei negozi , negli uffici, nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule di buon Natale, auguri, auguri, altrettanto auguri a lei grazie. Un brusio che riempiva la città.

“Ma ci credono? - chiese il bue - Lo dicono sul serio? Vogliono veramente tanto bene al prossimo?”

L’asinello tacque.

“E se ci ritirassimo un poco in disparte? - suggerì il bovino - Ho ormai la testa che è un pallone. Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?”

“No, no. È semplicemente Natale”.

“Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!” “E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena”. “E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano”.

“Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano!”.

“E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora, le stelle hanno la vita lunga”.

“Ho idea di no - disse l’asino - c’è poca aria di stelle, qui”.

Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.

LETTERA A BABBO NATALE


 

Caro Babbo Natale, quest'anno ti scrivo per la prima volta e spero che tu possa scusarmi per il ritardo, ma nonostante non sia più un fanciullo o proprio perché non lo sono più, ho sentito solo ora la necessità di scriverti e di rimediare a questa mia mancanza che continua da molto, forse da troppo, tempo.

Improvisamente ho sentito la necessità di scriverti, ma non per chiederti di ricordarti di me nella tua lista dei regali di Natale, bensì per scusarmi per il ritardo, e anche per provare a giustificare questa mia mancanza, non certo di rispetto, solo forse di affezione.

Io, per l’età che ho e, di conseguenza, per il tipo di educazione ricevuta e per le consuetudini dei miei tempi che ancora resistono dal tempo della mia infanzia, non ho mai trovato le occasioni per conoscerti e stimarti quanto meriti.

Dalle mie parti, in fondo alla grande pianura, i bambini erano abituati ad aspettare con trepidazione l'arrivo della vecchia, cioè il giorno che per molti è solamente quello che chiude le festività dopo la fine di ogni anno, quello che, per dirla con il proverbio “se le porta tutte via”, cioè l’Epifania.

Sebbene già da allora cominciasse ad affermarsi la schiera dei “Natalisti”, in pratica di coloro che facevano trovare ai loro figlioli i doni, dolci e giochi nella Notte Santa, io sono cresciuto in una famiglia che ancora svezzava e cresceva i bambini a pastasciutta e Befana.

In quella zolla di terra andava forte la tradizione dei regali portati ai bambini dalla Befana, in quei tempi, con tutto il rispetto per il Bambinello che portava l’amore nel mondo e il signore in rosso alla guida delle renne, tendevamo a prediligere la vecchia signora che portava giochi e dolciumi nelle nostre calze appese a stufe e camini.

"La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte..." cominciava così la filastrocca dedicata alla Befana e lei era, da sempre, presente nell’immaginazione di noi bambini con l’aspetto di una vecchietta curva, ma ancora autoritaria e con un caratteraccio da mettere in soggezione anche i più discoli.

Nelle nostre fantasie di bambini vedevamo la Befana come era nelle immagini dei libri di favole o come ce la raccontavano gli adulti, che disegnavano una vecchietta coperta di vecchi e logori abiti, mentre tirava un carretto colmo di pacchi o cavalcando una scopa volante con un grande sacco sulle spalle.

Una anziana signora che nonostante gli acciacchi e anche se già in età di pensione non si arrendeva, e continuava il suo lavoro con una energia incredibile e così tutti gli anni, anno dopo anno, arrivava nella notte tra il cinque ed il sei gennaio, quando ogni bambino dormiva nel sonno più profondo.

Un’altra certezza era quella che non esistevano condizioni climatiche o di traffico tanto difficili da poter fermare l’anziana nottambula, lei arrivava nelle case sempre e comunque, si faceva aprire con autorità poi, prese le dovute informazioni sul fanciullo li domiciliato, depositava i doni.

Nelle storie che circolavano si raccontava che, arrivata nella casa, cominciasse a sfogliare un enorme librone che si portava appresso e sul quale era annotato com’era stato il comportamento dell’infante durante l’anno appena trascorso. Non si poteva sfuggire al giudizio della Befana, quella sapeva tutto e, secondo il suo insindacabile giudizio, avrebbe lasciato giochi e dolci, oppure carbone e castagne secche, dure anche per le dentature più forti

Così i bambini la sera del cinque gennaio d’ogni anno, al contrario di tutte le altre, andavano a letto senza fare storie dopo avere esposto in cucina, in bella vista, le loro calze che, come tradizione voleva, sarebbero servite alla Befana come punto di riferimento per le consegne.

In pratica e meno poeticamente di quanto raccontato, quella notte, verificato che i figli dormissero, entravano in azione i genitori che tiravano fuori i regali, ben nascosti fino a quel momento, e li deponevano vicino alle calzette, dove i bambini li avrebbero trovati al risveglio.

Io custodisco gelosamente un ricordo indelebile di quelle notti in cui venivo improvvisamente risvegliato dal trambusto proveniente dalla cucina che, con il cuore in gola, mi faceva scendere di scatto dal letto per correre verso ciò che già immaginavo.

Tra il sonno che ancora mi tratteneva, l'emozione e il timore di trovare chi sa cosa e chi sa chi, mi affacciavo in cucina dove trovavo ad accogliermi il babbo e la mamma che mi raccontavano che la Befana se ne era appena andata via ma che, dopo aver verificato il mio comportamento nell'anno, aveva lasciato quei pacchi che facevano bella mostra tra le calze appese e tra cui, come sempre, non mancavano mai alcuni simbolici e ammonitori pezzetti di carbone.

Prima di ripartire per il suo giro di consegne, la vecchiarda aveva preteso un caffè del quale ancora vi era traccia nella tazzina sul tavolo della cucina, poi come era arrivata era ripartita, maldestra e scontrosa, facendo un gran baccano.

Col passare degli anni anni avevo intuito che era quel romantico di mio padre ad organizzare quella farsa, ma mi è sempre piaciuto continuare a credere all'arrivo della vecchietta scorbutica e poco rispettosa del mio riposo, era la fiaba che ogni anno entrava nella realtà, un bel sogno che si ripeteva.

Caro Babbo Natale, come vedi ho alle spalle delle esperienze e delle ragioni che spero possano giustificare questa mia minor affezione per te, rispetto a quella per la signora Epifania e ti chiedo scusa se solo ora comincio a rivalutare la tua imponente ma importante figura.

Ti posso assicurare che il tempo, il succedersi dei Natali nella mia vita, prima da figlio, poi da genitore, mi ha insegnato a voler bene alla tua rassicurante e bonaria presenza, a cercare di conoscerti meglio e stimarti di più, e poi sai com’è . . .bè, tra uomini ci si capisce.

Spero tanto che tu non me ne voglia se continuo a riservare le mie attenzioni, prima alla cara vecchietta e poi a te, ma credo che, oltre ad essere un grande vecchio, tu sia un gran signore, che può capire e condividere con me un po’ di galanteria verso la simpatica matura signora.

Con grande affetto ti saluto ricordandoti, come faccio sempre con la dolce cara Befana, di prestare attenzione nel tuo viaggio notturno della notte di Natale.

Questo nostro mondo, man mano che passano gli anni, diventa sempre più confuso e pericoloso e non vorrei che ti succedesse qualche cosa che possa, anche solo minimamente, intaccare la sicurezza dei bambini sulla tua costante presenza nelle loro notti di Natale.

Con, anche se tardivo, grande affetto, il tuo affezionato Bastiano.


23 settembre 2024

AGNOSTICO , NON ALTRO


" . . . .L’agnostico è scettico, solitario, un outsider. Ha un orientamento meno dogmatico che concreto, la sua visione del mondo è meno una confessione di fede che un metodo critico, un punto di vista sperimentale.

L’agnostico tende a porre delle riserve, tende al provvisorio. Non ama i fiancheggiatori e i seguaci, le “grandi convinzioni”, i forti nella fede e le teste vuote di ogni genere. Non fonda partiti e sette, non organizza missioni e non paga funzionari.

Il mondo per lui non è così univoco come per gli ortodossi di ogni provenienza e provincia. E’ più incline a mettere in dubbio che a dire di sì, più all’obiezione e spesso anche alla ripulsione che a un qualsivoglia consenso, più alla demolizione degli idoli che all’antropolatria e la realtà, tutto intorno al globo, gli fornisce conferme . . .."

Karlheinz Deschner, “Sopra di noi…niente”, ed. Ariele, Milano, 2008


Non sono un ateo, ma non sono neanche un credente, penso che non possiamo accettare una verità soltanto perché qualcuno prima di noi l'ha professata senza alcuna dimostrazione oggettiva.

C'è da dire che questa verità ha conquistato molti consensi nella storia, le sontuose cattedrali, gli alti pulpiti, nomi rilevanti di teologi, grandi cattedratici, pochissimi uomini di scienza.

Comunque, ritengo che la realtà dell'universo o degli universi è molto complessa, nessuno conosce l'origine, la causa della creazione.

Nessuno sa come questo orologio cosmico si sia caricato. Per questo motivo ritengo che l'ateismo è una presunzione, ma anche le religioni presentano questa screziatura logica.

Io non affermo, né confuto l'esistenza di Dio.

Ci sono molti perché ai quali possiamo dare delle risposte certe, altri perché come la metafonia ai quali possiamo dare delle risposte incerte ed approssimate, ci sono, ancora, altri perché ai quali non possiamo rispondere.

Molti sostengono che l'esistenza di un Dio creatore, che riconoscono nel dio biblico, sia una verità scontata, si sentono offesi o peggio vilipesi da chi manifesta una visione diversa, da chi si domanda e risponde in un'altra maniera da ciò che si aspettano.

Io sono un agnostico, non mi stanco di proclamarlo, perché sostengo che le problematiche cosmologiche non spiegano l'esistenza di Dio, nè possono negarla.

Le evenienze della creazione sono molteplici, l'opera di un Dio vivente non è che una delle infinite possibili interpretazioni. Dinanzi alle problematiche della creazione dovremmo in un certo senso tacere, o quantomeno affrontarle con un minimo di conoscenza scientifica.

Ci troviamo davanti ad un'incertezza impressionante, poiché ci sono preclusi quei parametri necessari per penetrare una realtà atemporale, però, possiamo soltanto ipotizzare, mentre le nostre certezze in tal senso appartengono solo ad una metafisica più o meno colorita.

Secondo il mio modesto modo di pensare, dovremmo porci con molta umiltà di fronte a problemi simili, senza avere la pretesa di sapere alcunché, senza riempirci la bocca di presunti saperi, che sono solo bugie.

Mi rendo conto che l'immagine di Dio è molto seducente, soprattutto, elude la nostra paura, la nostra incertezza esistenziale, l'angoscia della morte come dissoluzione dell' io.

Quest'universo così sterminato e freddo che osserva impassibile le vicende umane senza commuoversi, quasi eternamente assente e distaccato, che sembrerebbe esistere senza una ragione, o addirittura saltare fuori da un nulla, ci fa uscir di senno.

Ma se fosse proprio così, non potremmo farci in alcun modo niente, qualsiasi grido sarebbe solo una lettera morta. 

19 settembre 2024

IL PREMIO

 




UFFICIO IMPOSTE E TASSE”, stava scritto sulla targa di fianco al portone, e ispirava un senso di oppressione che aumentava alla vista del luogo dove era insediato l'ufficio.

L’ufficio era situato all’ultimo piano dell’ex casa del fascio di passata memoria, un palazzone cupo e pesante, con quei suoi grandi cornicioni in pietra scura e comunque, uno dei pochissimi edifici risparmiati dai bombardamenti della guerra.

Destino bizzarro il suo, la guerra si era portata via quasi tutte le più belle e amate architetture che caratterizzavano il paese e aveva invece risparmiato quella, tanto brutta quanto odiata, quella più invisa agli abitanti l’unica che, per ciò che era e ciò che rappresentava, in molti avrebbero voluto vedere rasa al suolo.

L’ufficio Imposte e Tasse, in pratica, era una sede periferica dell'Ente che stava in città e pertanto, il personale era talmente ridotto da limitarsi a due funzionari; nessun capo ufficio, i due erano di pari grado, avevano le stesse competenze e svolgevano le stesse mansioni, in pratica si dividevano il poco lavoro che gravava sul distaccamento.

Il ragionier Odovilio Ruffantini stava in quell’ufficio da quasi trent’anni e abitava in paese, dove si era stabilito poco dopo essere stato trasferito dalla sede principale.

Nella stanza di fronte a quella del ragionier Ruffantini ci stava il ragionier Monagotti Valghiero stessa anzianità di servizio e stesse mansioni del Ruffantini ma assunto in quota invalidi poiché aveva perso l'uso di un occhio.

I due erano giunti in quell'ufficio nello stesso periodo ma, se il ragionier Ruffantini aveva preso fin da subito la residenza nel paese, insieme alla famiglia, il ragionier Valghiero Monagotti aveva continuato a risiedere nella città e a fare ogni giorno la spola da casa al lavoro e ritorno con la corriera di linea.

Il Monagotti al contrario del Ruffantini non aveva impegni familiari, non si era mai spostato o, come gli piaceva ripetere, -tra le tante femmine amate, una che si meritasse il premio di diventare mia moglie non c’è mai stata.-

I due colleghi avevano le proprie stanze allo stesso piano e nello stesso corridoio e si dividevano gli stessi compiti: ognuno verificava lo stato patrimoniale e fiscale degli abitanti dei paesi su cui la sede periferica aveva competenza e, nei giorni di ricevimento del pubblico, si formavano nel corridoio due lunghe file di persone in attesa di essere ricevute dai due funzionari.

La coda degli astanti davanti all'ufficio del ragionier Monagotti non era mai eccessivamente lunga, al contrario di quella delle persone che aspettavano davanti all’ufficio del ragionier Ruffantini, che erano sempre molte di più.

Le due code si differenziavano per gli umori di coloro che le formavano; chiaramente il recarsi a trattare le tasse da pagare era per chiunque un compito gravoso, ma non poi così tanto per chi andava dal ragionier Ruffantini, a sentire i discorsi abbastanza gioviali e dalle facce preoccupate, ma non avvilite.

Ben altra impressione facevano le facce di coloro che dovevano affrontare il ragionier Monagotti, che erano scure e contrite e, oltre a sommessi commenti che uscivano a monosillabi, per il resto del tempo regnava un silenzio tombale.

Entrare nell'ufficio del Monagotti era come passare per l’anticamera dell'inferno, una vera e propria stanza degli interrogatori e lui, ”grandine”, come lo avevano soprannominato gli agricoltori paragonandolo alla peggiore delle disgrazie che poteva capitare in campagna, era rigido e intrattabile mentre distribuiva multe e sovrattasse, trattando i poveri malcapitati contribuenti come tanti delinquenti .

Il ragionier Ruffantini invece era disponibile ed elastico, infatti l' Odovilio, per come era conosciuto in paese, era visto dai più come un amico, un riferimento a cui rivolgersi in caso di necessità.

l’Odovilio, era sempre pronto a prestarsi per dare una mano in ogni circostanza e anche nelle pratiche dell’ufficio trovava sempre una via amichevole per portare il giusto all’erario e non pesare troppo sui contribuenti.

Quasi trent’anni di lavoro trascorsi con Valghiero, eh si! Forse aveva passato più tempo con lui che con la famiglia e se con la moglie c’erano scappati dei bisticci o delle arrabbiature, con il collega non c'era mai stato un diverbio.

Non erano certo mancate occasioni di confronto o divergenze, ma era sempre prevalso il buon senso, la calma, la condiscendenza, insomma tra i due colleghi c'era sempre stato un rapporto quasi idilliaco.

Una mattina, mentre stava esaminando una pratica che gli dava dei grattacapi, Odovilio ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse osservando, si alzò dalla scrivania, fece un giro per l’ufficio guardandosi intorno con un senso di disagio. Si grattò la testa, chiuse un occhio e si rimise a sedere.

Sarà la colazione di questa mattina che non ho ben digerito. -Tornò a consultare la pratica ma di malavoglia, c’era qualcosa che non andava e non riusciva a capire cosa, fu in quel momento che senti quella voce.

-Buongiorno Odovilio.-

Trasalì, alzò gli occhi e guardò la stanza girando la testa da un lato e dall’altro, ma non c’era nessuno, forse veniva da fuori, ma da fuori non era possibile sentirla così nitida e poi, con la porta chiusa. -Chi è? Avanti!- Disse a voce alta, ma niente, la porta non si aprì, fuori non c'era nessuno.

- Sono qui Odovilio, non preoccuparti, sono io che ti parlo , tu non mi vedi ma sono qui, accanto a te.-

Odovilio si alzò di scatto, fece un giro su se stesso preso dallo spavento, ficcò gli occhi in tutti gli angoli della stanza mentre la girava in lungo e in largo, toccando e spostando tutto quello che poteva.

Chi è? Chi c’è qui?- Ripeté spaventato, ma come poteva vedere con i suoi occhi, la stanza era vuota.

-Oddio, sta a vedere che a forza di stare in mezzo ai numeri adesso li sto dando io, pensò.– Ma la stessa voce ritornò e parlava lenta e calma ed era una voce calda, armoniosa e anche tranquillizzate.

-No Odovilio, non stai impazzendo, sono proprio io, non mi puoi vedere, ma puoi sentire la mia voce.-

Odovilio sentì che, stranamente nonostante la incredibile situazione che stava vivendo, la sua agitazione e la sua paura stavano scemando e man mano che la voce parlava, era tranquillo, nonostante quello strano fenomeno irreale che gli sembrava un sogno.

-Ma tu, chi sei? Che cosa sei? Cosa vuoi da me?-

-Sono la tua Anima, o il tuo Angelo custode, o il tuo Dava, il Mani, il Surkal, il Malak, il Dynameis, il Mediatore Celeste, insomma, chiamami come meglio credi, perché io sono l’entità trascendente che è sempre stata accanto a te, dal momento che sei venuto alla vita.-

-Ma . . . perché solo adesso ti manifesti?-

-Perché a volte capita che, per alcune persone, e in via eccezionale, ci si possa manifestare e questa è un'eccezione, io sono qui, ora, per premiarti.-

Odovilio sgranava gli occhi cercando di capire da dove proveniva la voce, voleva vederlo non era ancora del tutto convinto che una voce se andasse in giro da sola, senza la persona che la emetteva, doveva pur esserci chi o cosa parlava, ma quella sembrava arrivare da ogni direzione, lo avvolgeva e lo incantava.

-Ma perché? Cosa ho mai fatto per trovarmi in questa situazione?-

-Vedi Odovilio, nella tua vita tu sei sempre stato un uomo buono, hai dispensato amore e felicità a chiunque, hai sempre aiutato il tuo prossimo ma, nonostante ciò, non hai mai ricevuto in cambio ciò che meritavi, mai un riconoscimento adeguato, perciò e in via del tutto eccezionale è stato disposto, “Colà, dove si puote ciò che si vuole“, come dite voi umani, che ti venga destinato un meritato premio.-

Odovilio faticava credere a quelle parole, faticava a credere di essere sveglio, si sentiva come ubriaco. Proprio lui che era astemio!

-Ma perché questo? Ma perché a me? E poi, che premio dovrei ricevere?-

-Te l’ho detto Odovilio, perché tu un premio lo meriti e avrai il premio che tu deciderai. Potrai chiedere qualsiasi cosa desideri, di qualsiasi natura e senza alcun limite, decidi tu cosa vuoi.-

-Decidere cosa voglio? Cosi su due piedi, non è mica facile.- Odovilio tacque un momento si grattò la testa, chiuse un occhio, e lentamente riprese -Ma posso proprio chiedere tutto? Ma proprio, proprio tutto?-

-Senza limiti Odovilio, tutto quanto, ricchezza, potere, fascino, talento, intelligenza, tutto quanto puoi immaginare, l’avrai, ma ad una condizione.–

Odovilio di nuovo si grattò la testa e chiuse un occhio, e lentamente riprese. -E quale sarebbe la condizione?-

-Alla condizione che tutto ciò che verrà concesso a te, verrà dato, immediatamente e in uguale misura, al tuo collega.-

-Ha!- Esclamò Odovilio spalancando gli occhi. -La stessa cosa che ti chiederò io verrà data anche a Valghiero? al ragionier Valghiero Monagotti, è cosi?-

-Esattamente così, quello che avrai tu, lo avrà anche lui. -Sentenziò solennemente la voce.

Odovilio abbassò gli occhi e divenne cupo e pensieroso. Pensava a cosa chiedere e intanto nella sua mente si accalcavano, in rapida successione, immagini di momenti della sua vita, delle gioie e dei dolori, delle soddisfazioni e delle delusioni e di tutti coloro che aveva visto e conosciuto e intanto cercava di capire, di confrontare e di scegliere. Tutto ruotava vorticosamente, cosa poteva essere tanto importante, per lui, da soddisfare le aspettative di una vita intera, da bilanciare, da compensare, da ripagare quanto sacrificato in quell'intera esistenza. Odovilio si gratto la testa e chiuse un occhi, poi improvvisamente alzò la testa, spalancò gli occhi e un sorriso strano, quasi una smorfia, gli si disegno sul viso.

-Ha! Adesso lo so! Allora, alloraaaaaa. . .-

-Allora? Cosa hai deciso mio buon Odovilio?-

-Allora, cavami un occhio!-







26 luglio 2024

LA DOLCE ANNINA


 


Al tempo della spensierata fanciullezza, ogni mattina, correvo uscendo da casa per andare a scuola, e correvo per raggiungere i compagni lungo la strada, ma in quell'anno successe qualcosa di strano, di insolito, che non capivo, ma che mi prendeva più delle figurine, dei lego e della bici.

In quell'anno capitava che certe mattine uscivo senza fretta e mi soffermavo sul cancello o per la strada, insomma prendevo tempo, non rincorrevo più i compagni, ma rimanevo impaziente, in attesa del sopraggiungere di Annina che, dopo un po, vedevo spuntare in fondo alla strada, ed ero contento. Lei abitava nello stesso quartiere e frequentava la stessa scuola elementare: lei nell’ala dell’edificio destinato, alle classi femminili, mentre io in quella delle classi maschili, come era di regola allora.

Aspettare ogni mattina Annina per fare insieme la strada per la scuola era diventato, giorno dopo giorno in quell'anno, qualcosa di nuovo che mi appassionava e mi coinvolgeva, facendomi provare sensazioni che mai avevo provato prima.

Annina era una ragazzina dai capelli biondi, ma di un biondo particolare, quasi oro, raccolti in un paio di lunghe trecce che le scendevano dietro, lungo la schiena tonica ma affusolata e racchiusa, quasi stretta, proprio per via di quella sinuosa tonicità, nel grembiulino bianco che allora era d'ob­bligo alle scuole elementari.

I capelli biondi e lisci le incorniciavano il viso ovale spruzzato di lentiggini, e già allora io mi im­maginavo che quelle macchioline le si estendessero per tutto il corpo, dal momento che erano pre­senti anche sulle sue braccia e sulle gambe. Una creatura dolcissima con un sorriso meraviglioso, Annina era sempre allegra, serena, educata, non alzava mai la voce e per questo piaceva a tutti.

Annina con quell’aria paffutella, eh sì! In effetti era un po’ formosetta, certamente non grassa, ma morbida e molto piacevole. A quell’età, come tutti gli altri bambini, preferivo stare insieme ai ma­schi evitando le bambine in generale, che avevano altri giochi, altri modi che con i nostri non si po­tevano paragonare. La sola eccezione era Annina, che non so per quale motivo, ma non mi riusciva di comportarmi, con lei, come di solito facevo con le altre bambine, anzi, non riuscivo nemmeno a comportarmi come facevo normalmente in qualsiasi altra occasione e con chiunque altro.

Con lei mi perdevo e se da un lato mi metteva a disagio, da un altro mi riempiva di serenità la sua rassicurante presenza. In qualsiasi posto mi venissi a trovare, se c’era Annina, riuscivo a capirlo; percepivo nell’aria quel profumo di buono, quell’odore suo, unico e personale, che sapevo ricono­scere al di là di ogni possibile fraintendimento.

Quell’odore stimolante ma anche saziante, di buon mangiare, di riposo dopo una grande fatica, di sollievo dopo una forte paura, di festa e di allegria, di voglia di necessario e di superfluo.

Quell’odore che, nella vita, capita a volte di incontrare entrando in un luogo qualsiasi e può diventa­re improvvisamente di perdizione e allo stesso tempo di pentimento e poi di redenzione e ancora di languida consolazione.

A ben pensarci, l’immagine che Annina dava di se era, nell’insieme, era una di buona bellezza o di bella bontà, non so ben dire: non riesco a descrivere con più precisione cosa fosse per me, allora, quella dolce creatura che riusciva a darmi sensazioni che non conoscevo perché non capivo, ma che di lì a pochi anni avrei imparato ad apprezzare, riconoscere e rincorrere.

Quella sorridente bambina aveva il potere di farmi continuamente rivivere i miei legami più cari di allora, quelli più gelosamente custoditi. Passandole accanto, percepivo il profumo del pane appena tolto dal forno che, a quei tempi, le donne della famiglia facevano in casa.

In certe occasioni, sfiorando la sua pelle, sentivo gli aromi sedanti in cui riconoscevo lo spirito della grande cucina dove, emozionato, trovavo ristoro agli affanni e protezione dalle arrabbiature di mio padre.

Nelle giornate di primavera, quando capitava di vederci dopo la scuola, andavamo insieme per la campagna e, dopo affannose corse attraverso i prati fioriti, ci buttavamo stanchi e sudati sull’erba e ansanti ci riempivamo il naso e la bocca di aria e delle fragranze di tutta la natura che ci stava attor­no. In quei momenti percepivo, di Annina, una tempesta di profumi buoni e invitanti, come se mi fossi trovato in pasticceria. Vergognosamente, anche se non capivo perché, cercavo di nascondere quel desiderio, quasi incontrollabile, di addentare la sua pelle che mi tentava, al pari di spumose creme.

All’entrata della scuola, per raggiungere le aule, si doveva attraversare un ombroso e umido andro­ne e in certe giornate buie e piovose d’autunno, attraversandolo con a fianco la mia bionda amica, mi sembrava di essere nella cantina del nonno, guardavo le forme che quella strana luce, dava alla figura d’Annina e non riuscivo a fare a meno di aspirare profondamente, per assaporare quell’im­provviso profumo di mosto di vino, che si materializzava quasi per magia.

Col senno di poi, con l'esperienza vissuta, mi rendo conto che erano burrasche di istinti primitivi, che si ammucchiavano in caotica sequenza ma che oggi sarei ben contento di poter tornare a gusta­re, cercando di identificare e catalogare in buon ordine, centellinandoli, ad uno ad uno e poi lasciarli liberi di scatenarsi in una eccitante confusione.

Annina era la saziante serenità della mamma, era l’ingorda opulenza della cuoca, era l’appetitosa impazienza della morosa, era l’appagante desiderio della moglie, era l’esasperante golosità dell’a­mante, era il frugale assaggio proibito. Non sapevo, né potevo immaginare che nell’Annina c’era, come in tutte le esponenti dell’altra metà del cielo, l’intero mondo d’odori e sapori che riempiono, intrecciandosi negli anni, la vita fortunata di quelle persone che non si accontentano di vivere gli avvenimenti, ma che fanno di tutto per farli accadere.

Quell’anno passò, alternando momenti sereni passati all’ombra della rilassante tranquillità di Annina a momenti di tensione, per lo scherno dei compagni, che non riuscivano a capire cosa ci trovassi di tanto interessante nel frequentare quella ragazzina.

Finirono le scuole e durante le vacanze estive incontrai Annina alcune volte, ma presto capii che non era come prima. Durante la scuola vivevo al massimo quegli attimi fuggenti con Annina, aspet­tavo quei momenti e finalmente, quando mi trovai a poter disporre di tutto il tempo che volevo da passare con lei, mi resi conto che avevo poco da dire e da fare e quel poco era anche poco interes­sante.

Io, per lei, ero più strano, lei mi pareva meno bella, meno sorridente, meno interessante. Io mi senti­vo, il più delle volte, impacciato, lei a volte, addirittura annoiata da quel gran niente che, un po’ alla volta, nasceva tra noi.

Quell’anno, all’inizio della scuola, mi accorsi della mancanza di Annina solo perché me lo fecero notare i compagni di scuola, appresi che la dolce amica si era trasferita in un altro paese e di conse­guenza, aveva cambiato scuola, pensai che forse non l’avrei più rivista.

La rividi, invece, durante una visita ad un museo, organizzata per più scuole, in occasione di un evento particolare, una commemorazione o qualche cos'altro che non ricordo bene. Lei non mi vide, forse, io feci di tutto per rendermi invisibile ai suoi occhi. Annina era raggiante e parlava di conti­nuo in mezzo ad un nugolo di ragazzini che le ronzavano attorno.

Non riconoscevo più la dolce e malinconica amica in quella esuberante e chiassosa bambina che non perdeva occasione per lanciare acuti gridolini e sguaiate risate ad ogni battuta stupida o compli­mento melenso provenienti da quel branco di ragazzini, rapiti dalla affascinante biondina.

Ci rimasi male, ci pensai e ripensai per un po' di giorni, poi: la scuola, i giochi, gli amici riempirono di nuovo la mia esistenza.

Di Annina mi resta il ricordo del suo profumo di buono che, ogni qualvolta, all’improvviso, si ri­compone nelle narici, richiama alla memoria frammenti di ricordi di un passato di vita felice ma im­paziente.

Con il vissuto che mi porto appresso oggi, con l'esperienza del vissuto che mi segue in ogni mo­mento, ora, quando riaffiora quel profumo i sensi mi rapiscono e se non fosse che il tempo mi ha in­segnato a mordere i miei freni inibitori mi abbandonerei perso e perduto nel vortice dell'erotismo che, in compagnia o in solitudine, soddisferei nel pensiero di quella lattiginosa e lentigginosa schie­na solcata dalle trecce bionde.

02 maggio 2024

Nel tempo, fregati dal tempo



Le stagioni, in questo posto mezzo piatto e mezzo appiattito, sono sempre estreme, mai una media stagionale, come dicono i meteorologi, mai un modo che abbia la parvenza di normale.

Le stagioni, in questa terra di mezzo, passano lasciando sempre il segno, facendosi sempre ricordare e alimentando nella gente la speranza che non ritornino più così come le hanno viste e che invece anno dopo anno generazione dopo generazione si rivedono.

Le stagioni calde sono eccessivamente calde, eccezionalmente calde, calde torride, calde afose, calde tanto che bruciano e seccano tutto ciò che non ha un riparo.

Le stagioni fredde sono incredibilmente fredde, rigorosamente fredde, gelidamente fredde e fanno raggiungere al termometro temperature eccezionalmente bassissime.

Le stagioni miti, invece, sono ben poca cosa rispetto alle altre, brevi tregue tra quei fenomeni estremi, così brevi che non si riesce nemmeno a considerarle vere e proprie stagioni.

Il tempo passa facendo ricordare, a volte anche troppo bene, le stesse cosa che succedono alla gente e a tutto ciò che succede ogni giorno al modo che sta loro attorno.

Al tempo, non inteso come clima, ma come il succedersi dei giorni, settimane, mesi, anni, non va certamente meglio, anzi, né meglio né peggio e le giornate passano lente, tanto che non si arriva maia finire di tracciare sul, calendario, il segno a penna sul giorno appena passato, che si comincia a tracciare il segno su quello che sta iniziando.

Anche lo stato d’animo della gente è abbastanza simile alle stagioni, lo si capisce dai discorsi che fanno e dalle frasi e mezze frasi e dalle occhiate che si scambiano, dal detto no detto ma capito e che sono sempre estremamente favorevoli o decisamente contrarie.

Gente troppo allegra da sfiorare un’apparenza di instabilità psicofisica o troppo triste, quasi depressa; per non parlare delle discussioni e dei contrasti che nascono come normali alterazioni climatiche ed evolvono, con la velocità dei venti di tempesta, a veri e propri cataclismici contrasti al limite dello scontro fisico.

Il tempo è come un galantuomo, passa e se ne va, senza guardare in faccia a nessuno”, si sente sovente ripetere alle persone mature per età e, si presume, per esperienza, per non dire dei vecchi che di esperienze ne vantano a vagonate. Tante, ma tante da non ricordarsene una che una, ma intera, appropriata e adeguata da lasciare ai giovani.

I giovani, poi, apparentemente sono l’immagine della sconfitta dell’intelligenza umana, una catastrofe etnica. Corpi secchi e provati da evidenti mancanze alimentari contrapposti ad altri flaccidi e ipernutriti; in comune solo le espressioni dei visi, inequivocabilmente vuote.

Sorrisi e tristezze accomunati nella stessa smorfia, in alcuni casi odontoiatricamente provata, e comunque accompagnata da sguardi impenetrabili, spenti e limitati per campo d’azione, fino alle punte di nasi perennemente sgocciolanti o interessati da campagne archeologiche.

Nella mente, il tentativo di leggere quelle immagini, giunge inesorabilmente allo stesso risultato qualsiasi sia la chiave di lettura.

Il tempo, quel galantuomo del proverbio, non è poi così tanto galantuomo come viene descritto, anzi, all’apparenza si direbbe un po’ maleducato, sicuramente è molto altezzoso, se passando, non degna di uno sguardo nessuno dei presenti, insomma, l’educazione è di chi c’è l’ha e la usa e, senza tante smancerie, almeno un buongiorno è d’obbligo.

Il senso più intrinseco del vecchio detto, si riconosce proprio dopo il passare del tempo, facendo cedere all’ammissione che quel proverbio la dice lunga e in poche, ma significative parole, racchiude una grande lezione di vita.

Ora c’è da chiedersi dove sono finito quei vecchi saggi e quelle occasioni da non dimenticare protagonisti di fatti e azioni da ricordare in terno e da portare ad ogni occasione ad esempio con citazioni pompose e retoriche da far sbottare anche il più bonario incassatore o menefreghista di questo mondo.

Direi che i tempi, nel tempo, vengono manipolati ad arte da chi no sapendo bene come cavarsela nelle occasioni più complesse, usino queste preconfezionate vecchie e ricorrenti manovre ormai prive di ogni morale e svuotate di qualsiasi principi.

La gente sa fare solo la gente, nel senso che volente o nolente o cosciente o incosciente si adegua all’andazzo di quel mondo in cui trascina la sua vita quotidiane, senza riuscire a dire nulla di più di quello che è stato già detto e ripetuto da tanti prima e che peraltro continuerà ad essere ripetuto a tanti dopo.

Il tempo è un galantuomo, ma chi? Ma dove? Ma quando? Andate a chiedere a chi aspetta il ritorno di una persona cara se è vero, andate a chiederlo ad un ragazzo che non vede l’ora di essere adulto, o ad una ragazza che aspetta di poter coronare un sogno d’amore Il tempo è un tiranno che fa penare e che a nulla importa delle speranze o dei sogni della gente, anzi più ci mette a passare e far passare pene d’inferno e più ci gode pare che continui progressivamente a rallentare il volano dell’alternarsi delle ore e dei giorni.

I vecchi che conoscevano, a detta loro tutti gli umori del tempo avendo potuto sperimentare e apprendere tale conoscenza della vita non arrivavano a trasmetterli ai giovani proprio perché il tempo dopo averli fatti penare per la lentezza improvvisamente diventava veloce, a tal punto di non lasciar loro più giorni necessari a poterlo fare.

Il tempo è un’illusione a cui vogliamo credere, ed è alimentata dalle convenzioni inventate dagli uomini proprio per non smettere di crederci.

Il tempo è una fregatura che tutti prima i poi prendiamo e che. dimenticandoci di quanto è bruciante. continuiamo a cascarci ogni volta che si ripresenta l’occasione e, più spesso o meno spesso, ma le occasioni mediamente in una vita si eguagliano fra e per tutti

10 aprile 2024

Fetonte: breve storia di un mito

 


La mitologia greca è l’insieme dei miti e delle leggende legati alla cultura dell’antica Grecia. I racconti alla base della mitologia greca nascono tra il IX° e l’VIII° secolo avanti Cristo e In origine sono trasmessi per via orale, successivamente vengono raccolti, ampliati e messi per iscritto. La mitologia classica greca e romana non racconta solo storie di divinità, ma anche di uomini, spesso protagonisti di vicende tragiche, alcuni racconti della mitologia sono metafore di eventi storici. In generale il mondo della mitologia riflette la natura e la società degli uomini, gli Dei hanno vizi e difetti tipici dei mortali: sono gelosi, vendicativi, spesso accecati dalla passione. Tra i tanti personaggi della mitologia, parleremo di un mito che ha interessato con le sue vicende il nostro territorio: si tratta di Fetonte, nato da un dio dell’olimpo, ha attraversato il cielo ed è morto cadendo sulla terra. Tante sono state le versioni del mito di Fetonte raccontate da diversi autori tra i filosofi, letterati e storici che parlarono di Fetonte.

Esiodo, poeta greco che scrisse tra la fine del 700 e l’inizio del 600 a.c., Erodoto storico dell’antico mondo greco considerato da Cicerone come il padre della storia, Euripide drammaturgo greco, considerato tra i padri delle tragedie greche, Platone filosofo greco, uno dei fondatori del pensiero filosofico occidentale, Marco Valerio Marziale poeta romano, Dante Alighieri padre della lingua italiana. Giosuè Carducci, scrittore e critico letterario, insegnò all’università di Bologna, fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura e citò Fetonte nella lirica “Alla città di Ferrara”

“terre pensose in torvo aëre greve,

su cui perenne aleggia il mito e cova

leggende e canta a i secoli querele,

ditemi dove

rovescio, il crin spiovendogli, dal sole

mal carreggiato (e candide tendea

al mareggiante Eridano le braccia)

cadde Fetonte”

Noi ci affidiamo a quella descritta da Ovidio, poeta romano, tra gli esponenti della letteratura latina. Publio Ovidio Nasone, noto semplicemente come Ovidio nacque a Sulmona, in Abruzzo, nel 43 a.C. da famiglia appartenente al rango equestre molto illustre, trasferitosi a Roma studiò grammatica e retorica presso insigni maestri. Ovidio è stato famosissimo nel suo tempo e anche dopo la sua morte, tanto che ne riprendono i temi e imitano il suo stile moltissimi altri autori. La grande opera di Ovidio, quella che gli ha dato fama immortale le Metamorfosi, poema in XV libri terminate nell' VIII° secolo d.c. (periodo augusteo) dove, in 11.995 versi, ci ha trasmesso le più celebri storie della mitologia greco-romana descrivendo 250 personaggi mitologici. Il suo modo di fare poesia Ovidio si allontana dalla compostezza classica egli è innovatore, improvvisatore e moderno rimanendo comunque un poeta, Calvino ne esalta la leggerezza e la vivacità espressiva, capace di rendere sempre in modo plastico tutto ciò che sta accadendo.

Incominciamo con l’individuare il luogo dove avvenne l’epilogo della nostra storia che è molto vicino a noi, dove trovò la morte Fetonte. Il Po è il più lungo fiume d'Italia ma ha uno dei nomi più corti, due sono le lettere per una sola sillaba, ma al breve nome corrisponde una lunga storia. Partiamo dal nome greco: Heridanos, che è anche il nome di una costellazione dell'emisfero celeste australe, ha inizio dalla stella di Orione e si sviluppa da nord a sud, osservandola ricorda il corso di un fiume con le sue anse. Torniamo sulla terra, anzi nell'acqua del nostro fiume, non tutte le fonti storiche e mitologiche ricollegano l' Eridano al Po, per alcuni coincideva con il Nilo, per altri con il Rodano, Virgilio nell'Eneide lo cita come uno dei fiumi degli Inferi, ma la maggior parte degli storici ricollegano l' Eridano al Po. Ma Cosa significa la parola Eridano? In greco significa fiume del sole, della luce o del fuoco, infatti si compone di Ero che si intende come luce, fuoco, sole e Danos che significa fiume. Se per i greci era l' Eridano, per i Liguri, popolazione che abitava quella che allora era la Pianura Padana, era il Bodinco o Bodenco dove il sostantivo Bod significa mare, lago, laguna o pantano, e inco o enco sta per fiume, quindi Bodenco sarebbe il fiume-mare o il fiume-palude. Deduzione confermata dalla conformazione geofisica del Po in epoche antiche, infatti il tratto finale del fiume era differente dall'attuale, perché si dirigeva nell'Adriatico attraverso una grande estensione di paludi. Padus è invece il nome romano del nostro fiume, secondo alcuni il nome Padus deriverebbe dai numerosi alberi di pino che all'epoca costeggiavano il corso fluviale e da Padus deriva poi Padana, il nome della pianura dove noi ci troviamo. E vediamo adesso il nostro protagonista: Fetonte, questo giovane personaggio della mitologia greca che da sempre ha incuriosito poeti e scrittori; Fetonte, un dio caduto sulla terra la cui storia è piena di fascino come una tragedia greca e stimolante come un giallo. Ma qual è la storia di Fetonte? Dunque, si narra che fosse il giovane figlio maschio del dio Febo Elios, che era conosciuto anche come Apollo ed era il Dio del sole. Apollo, l'infaticabile pilota di un carro che produceva luce e energia, tirato da cavalli vomitanti fuoco col quale compiva viaggi quotidiani e aveva una forza definita divina e paragonabile a quella del sole e con il sole veniva identificato. Il dio Febo Elio aveva avuto vari figli e figlie, tra le quali Lampetia "colei che illumina", Faetusa "la splendente" e Egle "la luce" esse custodivano le mandrie di Elio in Sicilia, in un'enorme fattoria che fu saccheggiata da Ulisse e compagni, secondo il racconto che ce ne fa Omero nell'Odissea. Ma il prediletto era il giovane maschio Fetonte, avuto dalla ninfa Climene. Tutto ebbe inizio in Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di pelle e i loro sovrani erano il re Merope e la regina Oceanina Climene, la ninfa figlia di Oceano. Accadde un giorno in cui il dio Apollo fermò in quel luogo il carro durante la sua traversata quotidiana del cielo, da est a ovest, per dare luce alla Terra. Il dio si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene e improvvisamente si accorse che di lei non poteva fare meno e desiderò amarla, come detto gli dei cedevano alle forti passioni come gli uomini. Anche la regina rimase rapita al cospetto del dio il cui nome: Febo significa appunto “lo splendente”, che tale era e non solo in virtù del sole che trasportava sul suo famoso carro, ma anche perché era il dio della poesia e della musica, il dio nel cui aspetto si incarnava il sublime. Fu così che Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi cioè le figlie di Elio (come era chiamato Apollo) e Fetonte. Un precedente significativo nella vita di Fetonte, lo mette in guardia su quanto potrà succedergli infatti, anche se meno nota del mito, è l'opera di un altro cronista del tempo: Nonno di Panopoli, che racconta la vita di Fetonte prima dell'episodio del carro solare e dove, ancora infante, giocando con Oceano, fu lanciato più volte in cielo e ripreso, fino a quando il bambino evitò la mano di Oceano per cadere nelle acque scure, e fu il presagio della sua futura fine. Fetonte crebbe lontano dal padre Apollo, era un figlio illegittimo e fu cresciuto in Etiopia dalla madre e dal re Merope, che lo aveva adottato e lì aveva una corte di amici tra cui Epafo, anch'egli figlio illegittimo di un dio, e che dio! Figlio di Zeus e di Io, quest'ultima, dopo essere stata amata da Zeus, fu trasformata in vacca ed errò per tutta la terra, inseguita dalla collera di Era. Trovò infine asilo sulle rive del Nilo, e qui, riassumendo la sua forma umana, dette alla luce due figli, Epafo, "il tatto di Zeus", e Ceroessa, ma per ordine di Era, i Cureti rapirono Epafo, e lo fecero così bene che Io non riuscì a trovarlo. Zeus uccise i Cureti e la madre Io si rimise alla ricerca del figlio, venne a sapere che era stato ritrovato dalla moglie del re di Biblo, in Siria, lo riportò in Egitto, dove l'allevò e diventato adulto vi vi regnò, succedendo al padre adottivo Telegono. Le insinuazioni di questo amico coetaneo furono la causa che avrebbe scatenato un tale putiferio, infatti Epafo tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione d'essere figlio di un Dio, che in realtà non aveva mai visto, mettendo in dubbio che l'amico fosse veramente figlio del magnifico Apollo.

“ . . . sciocco tu credi a tutto quello che ti dice tua madre,

e vai in trionfo di un padre immaginario. “

Scrive Ovidio di come si espresse Epafo e chiunque a proposito di un tema così importante, come quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile affronto e desidererebbe dimostrare a tutti e con qualsiasi mezzo, la propria identità. Così infatti intese fare Fetonte che, corso dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli le prove e la certezza di essere figlio di un Dio, del dio Elio; scrive nelle sue Metamorfosi Ovidio:

“ . . . Climene, non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio

o dall'ira per essere stata messa sotto accusa

per questo fulgore splendido di raggi balenanti, che ci vede e ci ode

Io ti giuro, o figlio, che tu sei nato da questo sole che ti sta di fronte,

da questo sole che regola la vita sulla terra.

Se quel che dico e menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo

e sia questo per i miei occhi l'ultimo giorno.

Levò al cielo tutte e due le braccia e guardando dritto verso il sole esclamò:

Del resto, non ti ci vorrà molto a trovare la casa di tuo padre.

Il luogo dove dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione.

Se così ti aggrada, vai, e informati da lui direttamente.”

A tali parole Fetonte non indugiò e, con il cuore ansioso per l'imminente incontro col padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso l'oriente fino a che, oltrepassata l'India, giunse finalmente alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo. Era quello un palazzo interamente rivestito d'oro e Fetonte venne condotto il cospetto del Dio, ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce accecante che il padre sprigionava. Ecco come si presentò la scena a Fetonte secondo il racconto di Ovidio:

“ . . . il sole sedeva, avvolto in un manto purpureo

su un trono scintillante di fulgidi smeraldi.

A destra e sinistra stavano il Giorno e il Mese e l'Anno,

e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza una dall'altra;

stava la Primavera Incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda,

che portava ghirlande e spighe, e stava L'autunno

imbrattato di uva calpestata, e l'inverno ghiaccio, con capelli irrigiditi.”

Apollo lo accolse, fiero di essere il padre di Fetonte, il ragazzo era il simbolo dell'amore che lo univa a Climene e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzarlo in merito alla sua discendenza. Il giovane però voleva una prova dal padre, un segno incontrovertibile, un solo desiderio: essere lui, per un giorno, a dare la luce agli uomini guidando il carro del sole. Tutto si sarebbe aspettato Apollo, fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile, quanto sconsiderata. Cosa fare? Accontentare il figlio per tenere fede alla promessa fattagli o rifiutarsi il nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Apollo di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva compiere e comunque non senza fatica: lui, soltanto lui, nemmeno Giove Il re degli Dei avrebbe saputo farlo. Mantenere la giusta traiettoria era compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li sapesse domare. Vi erano poi delle costellazioni minacciose come il Toro, il Leone, il Granchio che bisognava saper “prendere” per non scatenarne l'ira; ed era importantissimo approdare a Occidente dopo aver eseguito tutto secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si poteva permettere di sbagliare. Ma gli avvertimenti furono del tutto inutili: Fetonte non ne voleva sapere e più Apollo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Fin quando, Apollo, davanti a quegli occhi ancora una volta volta lucidi di rabbia e amarezza si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio. Era nel frattempo giunta l'ora di sorgere e nelle Metamorfosi leggiamo:

“ -Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre,

evita ragazzo mio, di spronare e serviti piuttosto delle briglie.

Già tendono a correre di suo: è difficile e frenare la loro foga.

E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del Cielo.

C'è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura,

e resta compreso tra le sole zone senza toccare né il polo stradale,

né l'orsa dalla parte dell'Aquilone. Passa di lì;

Vedrai chiaramente le tracce delle ruote.

E perché il cielo e la terra ricevano pari giusto calore,

non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo.

Spostandoti troppo verso l'alto, bruceresti le dimore celesti;

Verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.

E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il serpente contorto,

O non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l'Altare.

Tieniti fra l'uno e l'altro. Per il resto mi affido alla Fortuna,

che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare tu stesso.

Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta, segnata sulle coste di Ponente.

Non ci è permesso indugiare, tocca a noi: l'Aurora, scacciate le tenebre, risplende.”

Fetonte salito sul cocchio lo fece partire, ma è troppo emozionato e ansioso di compiere la sua corsa sul carro del Sole e ascolta distratto e di tutti i suggerimenti paterni nemmeno uno fece in tempo a seguire, non appena i cancelli si aprirono. Infatti i cavalli (Eòo, Etone, Flegone, Piroide) si lanciarono all'impazzata, come ogni giorno, nel cielo immenso e subito si accorsero che l'auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte fu preso dal panico e non sapeva come tenere i cavalli, così descrive Ovidio quella scena:

“ . . . Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa ,

la quale cercò, invano, di immergersi nel mare ad essa vietato

ed il serpente, che si trova vicino al polo glaciale

e che è la prima era intorpidito dal freddo non faceva paura nessuno

si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista.

Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote,

benché fossi lento ed impacciato dal carro tuo.

quando poi l'infelice Fetonte si volse a guardare dall'alto nel cielo

la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì,

e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia,

e in mezzo a tutto quello luce un velo di tenebra di cagliò sugli occhi.”

Fetonte era sconvolto, impotente in balia dei cavalli impazziti nella foga della corsa, si pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi. I cavalli lo trascinavano in una folle corsa nel fuoco, senza avere la minima idea di dove stessero andando e così si avventurarono prima troppo in alto, fino a costare contro le regioni più lontane, poi troppo in basso, vicinissime alla terra, che divenne tutto ad un tratto una trappola incandescente. Passando così vicino alla Terra tutto arse e dove c'erano grandi delle foreste si formarono dei grandi deserti e i grandi fiumi si prosciugarono. Quella traversata disastrosa avrebbe cambiato per sempre i connotati della madre terra dando a determinati tratti le sembianze che conosciamo oggi. Fu allora che il popolo degli etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, dovuto all'eccessivo calore, divenne di colore nero e fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto e del Nilo non si trovarono più le sorgenti. Lo sconvolgimento non fu soltanto della geografia terrestre ma anche della gerarchia cosmica, che fu del tutto sovvertita, tanto che per la prima volta la luce del sole giunse là dove era proibito illuminare: il regno dei morti. Secondo Diodoro Siculo, quando Fetonte non fu più in grado di tenere le redini, il carro del Sole cambiò il percorso abituale e, prima di avvicinarsi pericolosamente alla terra attraversò i cieli incendiandoli e fu allora che tra gli astri si formò la Via Lattea. Superfluo è raccontare ciò che accade al mare e ai suoi pesci: l'acqua era in gran parte del evaporata e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottite dal fuoco e dal suo calore. Ma Gaia, questo era il nome della madre terra, questo non poteva subirlo e così in uno sforzo al limite delle sue energie implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione e il re degli dei intervenne, questo è come ce lo racconta Ovidio:

“ . . . Allora il padre onnipotente (Giove) chiamati a testimone gli dei (compreso il sole, che aveva prestato il carro)

che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva,

salì in cima alla rocca da cui suole falcare sulla terra i banchi di nubi,

da cui fare rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori

. . . . . .

Tuonò e librato un fulmine all'altezza dell'orecchio destro,

lo lanciò contro il Cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita

e arrestando l'incendio con una spietata fiatata.

. . . . . . .

Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti,

precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia,

come a volte Una stella può sembrare che cada,

anche se non cade, giù dal cielo sereno.

finisce lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo,

del grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. “

Viene narrato che oltre a Gaia o Gea e agli Dei, anche la madre di Fetonte pregò Zeus di porre fine a quel grande disastro cosmico e lui, Giove, prima che la terra fosse perduta non perse tempo, preparò una delle sue folgori e la scagliò contro il carro colpendo in pieno il giovane auriga. Fetonte precipitò in fiamme dal cielo, come una stella cadente e finì senza vita nelle acque dell' Eridano, già . . . proprio nel fiume Po. Le naiadi, le ninfe che presiedono tutte le acque dolci della terra con facoltà guaritrici e profetiche, gli diedero sepoltura e sulla sua tomba posero questo epitaffio:

"Hic situs est Phaethon, currus auriga paterni, quem si non tenuit, magnim tamen excidit ausis" "

Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; e anche se non seppe guidarlo, egli cadde tuttavia tentando una grande impresa. Secondo gli studi degli antichi scritti sono stati individuati i probabili punti lungo l' Eridano, dove Fetonte potrebbe essere precipitato: uno si trova all'altezza dell'odierno Crespino (RO) un paese sulla sponda Veneta, dove sopravvive ancora questa leggenda e da cui nasce la denominazione della piazza principale. Inoltre Il comune di Crespino, in Provincia di Rovigo, ha come stemma lo scudo araldico che riproduce il mito di Fetonte. Un altro punto viene individuato non molto distante ma più a ovest, nel tratto del fiume in provincia di Ferrara, tra i borghi rivieraschi di Pontelagoscuro, l'antico Lago oscuro che richiama il luogo generato dalla caduta di Fetonte e Francolino dove troviamo una piazza intitolata a Fetonte. Questa localizzazione trova un riscontro nelle Argonautiche il poema epico in greco antico scritto da Apollonio Rodio nel III secolo a.C.. Unico poema di età ellenistica sopravvissuto, racconta delle avventure del principe Giasone e degli altri eroi salpati a bordo della nave Argo alla ricerca del vello d’oro, la pelle di un mitico ariete dorato, nascosto nella Colchide. La narrazione copre un arco di spazio e di tempo enorme, dalla partenza della nella Grecia orientale, fino alla conquista del vello, sulle sponde più ad est del Mar Nero, coprendo infine il viaggio di ritorno degli eroi, costretti a navigare all’interno del continente europeo. Passeranno per le sponde dell’Italia adriatica dove Eracle fondò la odierna Eraclea e risalirono la foce dell’EridanusFino dai tempi delle grandi migrazioni greche (circa 1500- 1000 a . C.) rappresentò l’unico passaggio commerciale alla pianura padana e all’Europa continentale, che fosse accessibile ai Greci, i quali erano fortemente interessati al commercio dell’ambra (elettro) erano infatti localizzate presso la foce dell'Eridano le isole Elettridi dove si faceva la raccolta dell'ambra tanto che in Grecia la migliore veniva chiamata “electrum eridanium”. La valle del Po era l’ultimo tratto dell'antica via dell’ambra, sacra al Sole, che correva dal Baltico al Mediterraneo. Risalendo il fiume Eridano passarono in un punto dove il fiume formava una zona paludosa e insalubre chiamata successivamente il lago oscuro. In quel luogo, raccontano, dove ancora giaceva il corpo fumante di Fetonte, i cui miasmi avvelenavano addirittura gli uccelli e da cui nacque l’espressione ‘fetido’ o ‘fetente’. Un altro accenno al mito dio Fetonte ci viene da un passo di Polibio, che ci dice che i primo abitatori delle zone ferraresi usavano un vestito nero in segno di lutto per la caduta di Fetonte. Ritenuto per certo che la veste abituale dei Greci era bianca, quando questi arrivarono vi sovrapposero il lutto e si ottennero i due colori (bianco e nero) da cui derivò la forma della balzana (scudo gotico diviso in due parti) che è l'antico stemma del Comune di Ferrara.

Fetonte, Eridano, le Eliadi e più in generale tutto l’episodio narrato dalle Metamorfosi rappresentavano un leitmotiv della corte Estense, una tematica ricorrente all’epoca del dominio ducale sul territorio. Numerose sono le opere realizzate in questo contesto che esaltano la padanità del racconto ovidiano con diversi tipi di rappresentazione. Il mito di Fetonte si lega agli Este fin dal 1242, anno in cui (secondo una cronaca di Ferrara) Azzo d’Este commissionò un dipinto che prevedeva come soggetto proprio la storia ovidiana, trattata ricollegandosi alla tradizione classica del mito e non a quella più moraleggiante in voga in quel periodo. Questa fu la tragica fine della breve vita di Fetonte che volle guidare il carro del sole, ma la storia non finisce qui, nonostante l'accaduto nessuno odiò mai quel ragazzo e sia il padre, che la madre, le sorelle e le Ninfe, le Eliadi, lo piansero a lungo ai bordi delle rive del fiume. In quella circostanza accade che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo il tragitto. Fino ad allora le rive erano spoglie, ma in quei giorni, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, il loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l'inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola e allora dal legno fuoriuscirono lacrime. Giove allora trasformò quelle lacrime nella sostanza nuova, l'ambra, che al calore del sole s'indurì e cadendo nel fiume venne trasportata dalla corrente e nelle acque della foce del Po formarono alcune isole, dette "Elettridi". Le metamorfosi non risparmiarono altri personaggi convolti nella narrazione e si estesero anche ad un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l'audace figlio del Sole.

Cicno, il re dei liguri, piangeva disperato la fine dell'amico Fetonte e invocò la pietà di Apollo perché placasse il suo dolore e il Dio lo trasformò in un meraviglioso uccello, mai esistito fino a quel momento: un cigno e lo dotò di una voce melodiosa.

Di fronte a una favola tanto coinvolgente l'arte non poteva mancare l'appuntamento, infatti la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che, oltre ad avere una sostanziosa risorsa da cui attingere per manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso l'arte a cose conduce la superbia umana, quando pretende di misurarsi con la potenza Divina. Un'altra interpretazione fu quella della rovina a cui andò incontro il giovane sprezzante che disdegnò i consigli di chi era più vecchio e aveva più esperienza di lui, in questo caso il padre Apollo. C'è chi vede nel mito di Fetonte la trasposizione di fenomeni meteorologici e astronomici o anche il ricordo collettivo di catastrofi naturali: Fetonte è il sole che ogni sera precipita nel mare a occidente rischiarando l'orizzonte con il bagliore di un incendio. Secondo gli storici e gli archeologi la leggenda andrebbe ambientata nella pianura del Po e sarebbe legata alla via dell'ambra, che dalla pianura Padana risaliva al Baltico.

Così la vicenda di Fetonte e delle sorelle Eliadi dalle lacrime di Ambra, si è caricata di riferimenti topografici, umani e folkloristici e ha conosciuto oltre allo sviluppo culturale anche la tradizione orale. La leggenda di Fetonte ha ispirato nell'antichità classica molti artisti con quadri, affreschi, mosaici, sculture e tante altre opere e divenendo, dal Medioevo, anche un elemento della simbologia funeraria, scegliendo questa leggenda per decorare le tombe delle vittime di incidenti. C'è chi ha colto il nesso tra il mito e la prospettiva platonica e stoica della distruzione ciclica della terra al termine di ogni periodo cosmico. Vario è l'atteggiamento dei poeti latini nei confronti di questo mito, da Lucrezio a Plinio il Vecchio i riferimenti alla leggenda di Fetonte sono frequenti e legati alla suggestiva grandiosità della vicenda; ma il mito assume anche un doppio simbolo: morale e personale. Fetonte è il figlio che si rivolta contro il padre o, più generalmente, è l'orgoglioso che vuole elevarsi troppo in alto e perciò è punito anche se, a giudizio di alcuni autori, questo suo coraggio è eroico e ammirevole. La lezione morale è indicata da Ovidio stesso:

“ . . . è un castigo, Fetonte, quello che tu invochi come favore.

Mostra più saggezza nei tuoi desideri.”

Ma poi l'ammirazione del poeta verso quel giovane che considera come un eroe viene espressa nell'epigrafe finale:

“ . . . qui giace Fetonte, che volle condurre il carro Paterno.

Se non fu capace di farlo, almeno morì vittima di una nobile audacia.”

La mitologia greca ha espresso magistralmente, attraverso figure universali come quella di Fetonte, come la presunzione e l’arroganza alla fine si ritorcano contro l’individuo e la società, da cui l'insegnamento che per possedere qual cosa di grande valore bisogna esserne degni. Noi qui vediamo le conseguenze di un desiderio incontrollato: Fetonte è più colpevole di Icaro, che non resiste al volo e sale fino ad avvicinarsi al sole che scioglierà la cera delle ali incollate: No. Fetonte vuole guidare il carro del Sole per dimostrare che è figlio del Sole, che è divino. Non è amore del cielo e del volo che lo anima e guida; è superbia da adolescente, come gli adolescenti che protetti dai genitori accusano gli insegnanti colpevoli di non capirli, e, addirittura, rimproverarli, cercando di orientarli al viaggio sulla terra, lasciando a chi ne è all’altezza quello nel cielo. Questo adolescente, e il suo padre cedevole per senso di colpa, che rinuncia al suo dovere di padre sentendosi un cattivo padre, mandano il mondo in rovina. Sarà la Terra, che è una donna, a recuperare, a salvare il pianeta, a riportare la vita.