15 settembre 2023

L'ULTIMO RE

 

Il ricordo che oggi rimane di Umberto II, il "re di maggio" ultimo sovrano d'Italia, è offuscato dal complesso periodo storico in cui visse ed intriso di profonde malinconie.

Descritto come il migliore fra i Savoia re d'Italia, Umberto non ebbe mai il tempo per divenire protagonista della storia e pagò per tutti le colpe della sua dinastia, su tutte quelle del padre, Vittorio Emanuele III, che nei suoi riguardi nutrì sempre sentimenti contrastanti, tra l'ammirazione per la sua popolarità e la totale sfiducia, cedendogli il trono solamente quando non si poteva fare altrimenti, tragicamente tardi per poter salvare la monarchia.

Eppure, se al referendum del 2 giugno 1946 la repubblica vinse solo con una sottile maggioranza, per un risultato di gran lunga superiore alle previsioni del sovrano, Umberto dovette evidentemente avere qualche merito. Si deve poi considerare l'emotività di quel voto, a guerra appena conclusa, quando nella coscienza popolare erano ancora ben impressi gli errori di Vittorio Emanuele, vale a dire la fuga da Roma e l'incapacità di opporsi al regime di Benito Mussolini.

Quasi tutti erano concordi nel ritenere Umberto migliore di suo padre; Montanelli votò per tale ragione a favore della monarchia, conoscendo di persona il sovrano e provando nei suoi confronti una stima sincera, ma soprattutto si schierò nel referendum a favore di quell'istituzione che aveva creato l'Italia; De Gasperi, infine, considerava Umberto una bravissima persona.

Amabile, elegante nei modi, rispettoso e ligio al proprio dovere, il "re gentiluomo" mise sempre da parte i propri interessi personali a favore del bene del nostro paese, preferendo la triste via dell'esilio in Portogallo, dove visse dal 1946 sino alla morte, avvenuta nel 1983, piuttosto di un'inutile guerra civile che avrebbe causato ulteriori danni a seguito degli eventi già così drammatici del secondo grande conflitto mondiale. Questa decisione non scontata, che aprì ad un periodo di pace e di ricrescita, non va dimenticata.

La partenza da Roma, a seguito dei risultati del referendum istituzionale, avvenne in un'atmosfera surreale, sotto un cielo grigio che minacciava temporale.

Era il pomeriggio del 13 giugno 1946 e l'immagine affascinante del principe ereditario che aveva rapito il cuore di ogni giovane donna lasciava spazio ad un re segnato dal fardello della storia e dalle decisioni così difficili da prendere in quei pochi giorni di fine primavera, momenti che segnavano l'epilogo di una lunga pagina di storia nazionale, ma se si vuole anche di novecento anni di dinastia. Come doveva essere difficile accettare un così amaro destino mentre all'aeroporto di Ciampino un aereo lo attendeva per raggiungere Lisbona. Umberto indossava un dimesso abito grigio con la cravatta nera a lutto dell'Italia, che porterà durante tutto l'esilio. Con il volto segnato dalle rughe, il viso pallido e tirato, riuscì ad abbozzare un sorriso poco prima di partire per un viaggio che non lo avrebbe mai più riportato nell'amata patria.

Umberto nacque la sera del 15 settembre 1904 nel castello di Racconigi, un borgo contadino a metà strada fra Torino e Cuneo, nel periodo della cosiddetta "età giolittiana", quando il protagonista della politica italiana era il piemontese Giovanni Giolitti.

Mite, dolce e sensibile, il futuro sovrano fu costretto alla ferrea disciplina militare impartitagli a villa Savoia da numerosi precettori per volontà di Vittorio Emanuele, che si pose sempre nei confronti del figlio non come padre, bensì come re, con severità e distacco.

Del rapporto tra Umberto e suo padre durante l'infanzia rimane solo una foto, probabilmente la più affettuosa, che ritrae un attimo di tranquillità familiare, sebbene Vittorio Emanuele non nascondi sotto il cappello un'espressione tesa e quasi insofferente a causa di quella posa forzata. Un'intervista del periodo dell'esilio ci narra di quei ricordi legati alla giovinezza.

La madre Elena del Montenegro, da cui prese le morbide fattezze, gli occhi neri e l'altezza, ma soprattutto la bontà e un profondo spirito di sacrificio, era invece una figura rasserenante e comprensiva, capace di donare al primogenito l'amorevolezza e la dolcezza di cui aveva bisogno. Ella aveva adottato gli stessi modi semplici anche nel suo ruolo di regina, al contrario di quelli solenni di Margherita di Savoia, moglie di Umberto I

Galante e raffinato, vestito sempre in modo impeccabile e alla moda, i capelli scuri ben pettinati, la barba rasa perfettamente per evidenziare i dolci lineamenti, Umberto era un uomo che incarnava lo speranzoso futuro di una nazione, mentre Vittorio Emanuele era ormai un vecchio re sfiduciato e oppresso sin da ragazzo da complessi di inferiorità dovuti alla sua statura, condizionata dall'unione tra Umberto I e la regina Margherita, cugini di primo grado.

La popolarità del figlio era forse invidiata dal padre, orgoglioso e testardo al punto da tenere sino all'ultimo il potere come a voler dimostrare che solamente lui era in grado di governare, anche quando all'estero si faceva ormai maggiore affidamento su Umberto piuttosto che sul sovrano.

Vittorio Emanuele non si curava di quello che si diceva su di lui e sulla sua famiglia, fermo nella convinzione che "in casa Savoia, si regna uno alla volta". Cinico sino a disprezzare tutti, dubbioso sulle capacità politiche del figlio, il re non gradiva nemmeno l'attivismo politico della nuora Maria José, donna di cultura in contatto con i politici e gli intellettuali antifascisti.

Umberto e la principessa Maria José del Belgio si sposarono l'8 gennaio dell'anno 1930 nella cappella Paolina del Quirinale, in una vera e propria sontuosa cerimonia regale alla quale partecipò buona parte dell'aristocrazia internazionale, tra cui, oltre ai membri di casa Savoia e del ramo cadetto Aosta, il re Alberto I del Belgio con la famiglia della sposa al completo, a cominciare dal futuro Leopoldo III come testimone di sua sorella Maria José; vi erano poi re Boris di Bulgaria che poco dopo sposerà una sorella di Umberto, le sorelle della regina Elena, infine il duca di York, che nel 1936 salirà al trono inglese con il nome di Giorgio VI. I coniugi, al termine della funzione religiosa, furono ricevuti in Vaticano da papa Pio XI, segnale di una progressiva riconciliazione fra l'Italia e il Vaticano ad un anno dai Patti Lateranensi. La visita riempì di gioia il principe Umberto, molto credente a differenza di suo padre.

Umberto, la cui infanzia era stata repressa nel rigore militare e nella severa educazione, visse il matrimonio come un'imposizione che ostacolava il suo complesso percorso di crescita e di ricerca di una propria dimensione. Come detto però, i due coniugi apparirono sempre uniti agli occhi del popolo ed insieme ebbero tre figlie femmine e l'erede maschio Vittorio Emanuele.

Il regno di Umberto non è da considerarsi solamente nel breve periodo, poco più di un mese, intercorso fra l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, avvenuta il 9 maggio del 1946, sino alla partenza per l'esilio il 13 giugno successivo, dunque come l'ultimo dei Savoia o come una sorta di Luigi XVI finito, anziché sulla ghigliottina, lontano dalla patria in completa solitudine. Bisogna invece porre l'attenzione ai due anni che seguono la decisione del padre di cedergli i poteri come Luogotenente del regno, ma anche al suo ruolo di principe ereditario.
Interessante è analizzare, oltre a capire se vi fu veramente, il sentimento di antifascismo da parte di Umberto, certamente distante nei modi e nell'ideologia dal duce, ma allo stesso tempo impossibilitato a prendere posizioni nettamente in opposizione al padre, il quale, sebbene controvoglia, aveva avvallato il regime e accettato la diarchia.
Umberto, che non aveva mai nutrito entusiasmo per il fascismo, sembrò adeguarsi come la maggior parte degli italiani e degli uomini di potere a quello che si rivelò la rovina del paese; chiaramente bisogna tenere però in considerazione la sua posizione di rilievo, che gli avrebbe permesso di opporsi, ed in questo caso la mancata azione concreta risalta con maggiore evidenza.
Come sempre Umberto fu vittima di quell'assoluto rispetto per suo padre, al quale doveva obbedienza non solo come genitore ma anche come re, che per tutta la vita non gli permise di compiere delle scelte. La volontà da parte di Vittorio Emanuele di tenere lontano il figlio dalla vicende politiche è inoltre interpretabile, oltre che come una mancanza di fiducia, come la scelta di non coinvolgere la monarchia in un rapporto troppo stretto con il regime, distinguendo quindi la propria posizione politica, ormai compromessa, da quella dell'erede.

Non riuscendo ad imporsi e a prendere convinte decisioni, Vittorio Emanuele vedrà concludersi il proprio regno nel peggiore dei modi, consapevole di non essere stato in grado di evitare al paese le atrocità della guerra, di essersi arreso con troppa facilità alla follia dei due dittatori. Assisterà da lontano, costretto all'esilio, alla fine del regno sabaudo.

Quando ormai era troppo tardi, il 25 luglio 1943, a conflitto ormai perso e a seguito del bombardamento di San Lorenzo, il re, ricordandosi dei sui poteri, fece arrestare Mussolini, affidando il ruolo di capo del governo al maresciallo dell'esercito Pietro Badoglio.

L'8 settembre venne firmato l'armistizio, con il re che a questo punto rischiava di finire catturato dai tedeschi. Si decise allora per la fuga, un gesto certamente non oneroso che lasciava la capitale al proprio destino, nella più assoluta anarchia. Il monarca, nell'estremo tentativo di dare continuità allo Stato e difendere gli ideali unitari, decise di trasferirsi al sud, in territorio non invaso da tedeschi o Alleati, temendo per l'incolumità della famiglia reale e al fine di evitare che il paese fosse rappresentato unicamente dalla mussoliniana repubblica di Salò.

L'ultima sera prima della partenza, al Quirinale, in una situazione irreale, vi erano solamente Vittorio Emanuele, la regina Elena e loro figlio Umberto, che obbedì a suo padre pur essendo intenzionato a restare a Roma. In cuor suo il principe si sentiva in dovere di rimanere nella capitale, difendendola anche a costo della vita. Il coraggio non gli mancava, ma era incapace di disobbedire. La madre lo supplicò di partire, Vittorio Emanuele glielo ordinò. Forse quel gesto avrebbe avuto, qualche anno più tardi, la sua ricompensa.

Ancora una volta Umberto dovette sottomettersi alla volontà di Vittorio Emanuele, non essendo il suo momento per regnare. Eppure quella notte fece di tutto per seguire le proprie convinzioni, continuando, anche mentre le automobili lasciavano Roma verso Pescara, a supplicare inutilmente il padre, finendo per essere rimproverato duramente anche da Badoglio. Rassegnato, quasi in lacrime, Umberto ripeteva: "Mio Dio, che figura!". Nemmeno a distanza di molti anni, durante l'esilio, si permise però di parlare male del padre e della sua scelta.

A seguito della liberazione di Roma, dopo che Vittorio Emanuele aveva firmato l'atto di luogotenenza col quale trasferiva i poteri al figlio, Umberto poté finalmente fare ritorno nella capitale.

Ufficialmente sul trono vi era ancora Vittorio Emanuele, ostinato a mantenere il potere proprio fino alla fine, incapace di farsi da parte nonostante durante la giovinezza avesse cercato di evitare di dover assumere quel ruolo, per poi farsi carico di ogni responsabilità con il regicidio di suo padre.

Nella posizione che occupava, Umberto era ancora molto legato all'obbedienza e impossibilitato a muoversi liberamente e con decisione, tuttavia il suo atteggiamento nei due anni di luogotenenza dimostrò una spiccata intelligenza, ponendosi in ascolto di ogni diversa visione e con spirito di collaborazione, favorendo le condizioni di pace ad un paese che nel 1944-45 di tutto aveva bisogno fuorché ulteriori scontri.

Significativo fu il suo primo atto politico, avvenuto quando Badoglio diede le dimissioni. Umberto provò ad affidargli nuovamente l'incarico di formare un nuovo governo, trovando però un clima di sfiducia da parte dei partiti di sinistra, che vedevano nel maresciallo un rappresentante del passato.

Umberto sapeva che la riconferma di Badoglio avrebbe trovato il sostegno, a livello internazionale, del Primo ministro britannico Winston Churchill, conservatore puro e quindi difensore della monarchia, allo stesso tempo era però a conoscenza dell'unanimità dei partiti antifascisti nel ritenere opportuno un radicale cambiamento. Decise così di affidare l'incarico a Ivanoe Bonomi.

Ulteriore segnale di distacco dal passato fu la nomina del marchese Falcone Lucifero a ministro della Real Casa, un uomo che era stato vicino a Matteotti e che si allontanò dalla politica con l'ascesa del fascismo.

Quando si era ormai in prossimità del referendum istituzionale, nel pomeriggio del 9 maggio 1946, Vittorio Emanuele III si decise ad abdicare in favore del figlio, cercando vanamente di salvare la monarchia.

La cerimonia, che si svolse presso villa Maria Pia a Posillipo, fu breve e triste, intrisa di malinconia e profondi rimpianti, con l'anziano sovrano che appariva sereno, sforzandosi però nel trattenere una forte commozione evidenziata dal tono della voce con cui leggeva la formula di abdicazione. Vittorio Emanuele e la moglie Elena si preparavano a partire per l'esilio in Egitto, ospiti di re Faruk; Umberto diventava, tardivamente, re d'Italia.

Umberto si recava così a visitare diverse città italiane, da solo, senza la moglie che ancor meno di lui credeva in una vittoria al referendum. Al sud veniva accolto con entusiasmo e calore, da folle che lo acclamavano sentendosi ancora legate alla dinastia e in particolare alla sua persona. Al nord era insultato, coperto di ingiurie e provocazioni, tuttavia il sovrano non perse mai la calma e la sua infinita compostezza. Appariva però stanco e prostrato dalla tensione, precocemente invecchiato. Fu un gentiluomo sfortunato che pagò colpe non sue, assistendo inevitabilmente, il 2 giugno, alla più dolorosa delle sconfitte.

Il suo merito più grande fu quello di accettare con correttezza e signorilità il risultato, contribuendo a scongiurare disordini, scontri e una possibile guerra civile, non ascoltando chi gli consigliava di recarsi a Napoli dove la monarchia era forte.

L'esito della votazione si rivelò superiore alle aspettative, con il paese diviso nettamente in due, il nord repubblicano, che ottenne 12.717.923 voti, contro il sud monarchico fermo a 10.719.284. Inizialmente sembrò addirittura che avesse vinto la monarchia, sino a quando non arrivarono, copiosi, i voti delle regioni del nord Italia. Si parlò di brogli, di possibili falsificazioni, ed ancora oggi i dubbi sulla correttezza di quel verdetto non sono risolti, ma Umberto non sollevò alcuna polemica, lasciando il paese senza proteste.

Cominciò così il lungo esilio in Portogallo, presso villa Italia a Cascais, dove trascorreva molto tempo sulla spiaggia, contemplando l'Atlantico, in preda a insanabili nostalgie. Nel suo testamento espresse la volontà di donare la reliquia della Sacra Sindone, di proprietà di casa Savoia, al pontefice.

Si spense il 18 marzo 1983 in un ospedale di Ginevra a seguito di una lunghissima agonia, sussurrando negli ultimi istanti, all'infermiera che gli teneva la mano, la parola "Italia".

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