Non voterò per la monarchia
perché io pensi che il Re possa salvare gli averi di coloro che posseggono. Costoro sono bensì
moltitudine in Italia: di soli proprietari di terreni si contano 13 milioni uno
ogni tre abitanti e mezzo, più di uno per famiglia. Ma gli averi non si salvano
facendo in una forza esteriore. Si salvano solo con il lavoro, coll'iniziativa,
col risparmio, rinunciando ad ogni monopolio, ad ogni privilegio dannoso alla
collettività. Né voterò per la monarchia perché pensi che il Re possa essere le
roi des gueux.
Non devono più esistere in
Italia, come un tempo accadeva, straccioni di cui il Re possa dire di essere il
difensore contro la prepotenza dei grandi. Non voterò neppure per la monarchia
perché speri che essa ci salvi dal salto nel buio di una repubblica comunista o
socialista. Nessuno può salvare gli italiani dal salto nel buio o nell'abisso
se non gli italiani stessi.
Se non volessi, assai più che
la vittoria della monarchia, la vittoria del bene comune, dovrei augurare alla
repubblica di iniziare il suo corso nel travagliato momento odierno: col 20 per
cento della ricchezza nazionale distrutta, col reddito nazionale totale, ossia
coll'insieme della produzione annua totale di beni e servizi, dalla quale
soltanto si ricavano salari, stipendi, interessi, guadagni, imposte, ridotto
del 45 per cento in confronto all'anteguerra, colle disponibilità liquide
(massa totale dei depositi presso le casse di risparmio e le banche di ogni
specie) nominalmente cresciute, ma in realtà ridotte ad un terzo di quelle
esistenti nel 1938.
La impossibilità fisica
assoluta di mantenere le promesse che a gara i partiti vanno facendo, le prove
della dura fatica che tutti, appartenenti a tutte le classi sociali, dovremo
sostenere, saranno causa di disillusioni acerbissime, delle quali la colpa sarà
fatta risalire da molti, forse dai più, all'istituto che avremo scelto per dar
forma allo stato.
Ma non voterò per la
Repubblica, perché temo per l'Italia il pericolo dal quale a grande stento si
salvò il 5 maggio la Francia, respingendo il progetto di costituzione che la
maggioranza social-comunista aveva costruito. Quel progetto soddisfaceva alla
logica astratta dei dottrinari. Se si parte dalla premessa che l'unica, la vera
fonte del potere sia la volontà del popolo,è chiaro che da essa soltanto
debbano provenire tutte le forze politiche esistenti nel paese. Quando i
cittadini hanno eletto una assemblea a suffragio universale segreto, a che pro
una seconda assemblea e un presidente eletti con metodi diversi, dallo stesso
popolo, i quali altro non potrebbero fare, se volessero far qualcosa, se non
frastornare o ritardare i deliberata della assemblea popolare?
Dunque sia unica l'assemblea,
sia da questa eletto il capo dello stato e siano da essa e da essa sola dettate
le norme relative al mantenimento della giustizia, alla libertà di religione,
di pensiero, di stampa, di insegnamento, di associazione. I francesi
ricordarono però che le assemblee, uniche sovrane sono dominate dai partiti, e
che questi ubbidiscono, soprattutto in regime di rappresentanza proporzionale,
a giunte le quali, impadronitesi della macchina dei partiti, fanno le elezioni;
che perciò è sempre imminente la tirannia delle assemblee, non meno dura della
tirannia di uno solo.
Ricordarono di aver preferito
il tiranno alla strapotenza di una assemblea unica sovrana. Ricordarono la
dominazione del primo Napoleone, seguita alla Convenzione ed al Terrore, da cui
si poterono liberare soltanto grazie alla ritirata di Mosca, ed alle disfatte
militari di Lipsia e di Waterloo; ricordarono la rinnovata tirannide del terzo
Napoleone, anch'essa funesta a tutte le libertà politiche, seppure largitrice
di tranquillità apparente e di prosperità economica. Anch'essa era finita nella
sconfitta di Sedan e negli incendi della Comune. Non dimenticarono anche che il
signor Lebrun, ultimo presidente eletto dalle assemblee elettive, firmò l'atto
di morte della terza repubblica.
Neanche la elezione del capo
dello stato da parte del suffragio universale diretto e segreto col sistema
della repubblica presidenziale stabile. è garanzia di libertà. Conosciamo un
solo esempio nella storia contemporanea di repubblica presidenziale stabile: ed
è quello degli Stati Uniti.
Ma quello è un miracolo dovuto
alla coincidenza di molteplici fattori storici, che sarebbe puro caso
riprodursi altrove una ultrasecolare preparazione di governo indipendente nei
tredici stati riunitisi nel 1787 in federazione; Washington, il ,generale
fondatore, sceso volontariamente da presidente alla condizione di gentiluomo di
campagna, allo scadere del secondo quadriennio; un grande giudice, il Marshall,
che fondò e difese l'autorità della Corte suprema contro gli assalti di
parlamentari e di presidenti e creò il vero ultimo presidio delle libertà dei cittadini.
Le esperienze uniche nella storia non si ripetono.
Si ripetono invece le
esperienze sfortunatamente ordinarie delle repubbliche centro e sudamericane,
dove i pronunciamenti militari si succedono e le elezioni sono assalti al
potere da parte di capi di fazioni e ove non sono rare le lunghe tirannie dei
Rosas e dei Diaz. Accade anche che un presidente eletto dal popolo a tutore
della costituzione, secondo i dettami della troppo sapiente carta di Weimar, il
maresciallo Hindenburg, consegni il potere al signor Hitler, all'Attila
moderno.
No; gli uomini trovano libertà
solo in se stessi, nella loro forza d'animo, nella decisa volontà di resister e
nelle carceri dello Spielberg all'austriaco dominatore, nei reclusori e nelle
isole al nostro tiranno da palcoscenico, nelle carceri alle torture tedesche e
neo-fasciste.
Ma perché dobbiamo creare
nella carta costituzionale le garanzie della libertà di tutti i cittadini,
anche per quelli che, senza essere eroi, servono umilmente la patria compiendo
il proprio dovere, dico che, accanto alle due assemblee legislative, accanto ad
un capo del governo, che goda la fiducia dell'assemblea popolare, perché la sua
elezione è parte della elezione di questa, accanto ad una magistratura
autoreclutantesi e indipendente da governi e da assemblee politiche, accanto ai
consigli elettivi regionali, provinciali e comunali, forniti, nei limiti dei
propri ben definiti e ben ragionati compiti, di piena autonomia dal governo
centrale, accanto alle chiese e massimamente alla chiesa cattolica, accanto
alle fondazioni ed accanto alla scuola, istituti tutti volti ad opere autonome
di bene, deve esistere un capo di stato, il quale tragga ragioni di vita da una
fonte diversa dalla elezione.
Questa fonte è una forza
storica, costituita da tradizioni da opere compiute in passato attraverso
secoli di lotte e che non possono essere distrutte da errori commessi in un
tempo recente, che è un attimo nella vita dei popoli.
Noi non possiamo dimenticare
che il Piemonte e la Casa Savoia con una lotta secolare avevano respinto, da un
lato, sino al Ticino, spagnuoli e tedeschi e dall'altro lato, sino alle Alpi, i
francesi, i quali pur vantavano diritti su Casale e su Asti e per lunghi anni
avevano dominato la capitale dello stato sabaudo da Carmagnola e da Pinerolo,
conquistando all'Italia quei confini naturali sulla cima delle montagne che
oggi, per la sventura e la discordia delle due nazioni sorelle, ci sono
nuovamente contesi.
Noi non possiamo dimenticare
che fu così foggiata quella spada, furono fondati ed agguerriti quei reggimenti
senza di cui la idea della unità d'Italia sarebbe rimasta vana aspirazione di
pensatori e di poeti. Il patrimonio delle tradizioni e delle glorie avite è
patrimonio di tutti, che dobbiamo trasmettere intatto ai figli e ai nipoti. Lo
dobbiamo trasmettere cresciuto e rinnovato.
La monarchia, forza storica,
potere al di sopra delle parti, deve diventare quell'istituto di cui in
Inghilterra si dice che non se ne parla mai. Se ne parlò un giorno, quando nel
1649 la testa di Carlo I cadde nella sala dei banchetti di Wesminster, e di
nuovo quando nel 1689 Giacomo II fu costretto a prender la via dell'esilio.
Ma nel 1689 un parlamentare,
cappello in testa, lesse a Guglielmo, nipote del re decapitato ed a Maria,
figlia del re esiliato, una dichiarazione nella quale era detto che mai più gli
inglesi avrebbero tollerato che il loro re esigesse imposte non votate dal
parlamento, traesse in arresto cittadini senza il mandato ed il giudizio del
magistrato ordinario, sospendesse l'applicazione delle leggi senza il consenso
del Parlamento, intralciasse la libertà di voto dei membri delle due camere.
Sono passati 256 anni da quel
giorno memorando; e i re inglesi hanno imparato la lezione e sono oggi il
simbolo della unità della comunità delle nazioni britanniche, un simbolo di cui
non si parla mai e che non si invoca se non quando accade che una Camera dei
comuni divisa e discorde in se stessa non riesca a designare chiaramente al
capo dello stato colui che dovrà essere il primo ministro.
Questa è la monarchia per la
quale noi votiamo; una monarchia la quale nei giorni ordinari sia il simbolo
rappresentativo dell'unità della patria e della concordia dei cittadini,
circondata da una corte austera, i cui membri siano scelti dal Re e dalla
Regina sentito il parere conforme del primo ministro, ed adempia all'ufficio di
tutrice della costituzione e di organo della volontà del popolo nei momenti
supremi della vita della nazione, quando le altre forze politiche si dimostrano
incapaci ad esprimere un governo stabile.
A quel re, memori delle parole
che un tempo i compagni delle battaglie comuni contro gli arabi indirizzavano
in terra di Spagna ai sovrani nuovamente assunti al trono, noi diciamo,
cappello in testa: "Noi, ognuno dei quali è uguale a te e che tutti
insieme siamo più di te, dichiariamo e vogliamo che tu sia Re per la difesa di
tutti contro chiunque di noi si eriga ad oppressore nostro e contro la follia
di noi stessi se per avventura ci persuadessimo a rinunciare alla nostra
libertà. Se tu sarai Re per difendere noi e le libertà, noi ti saremo fedeli
perché saremo, così facendo, fedeli a noi stessi, ai nostri avi ed ai nostri
figli. Ma se tu non sarai il Re che noi vogliamo, sappi che non basterà più
l'oblio dell'esilio volontario a lavare le tue colpe". Così e non altrimenti
ha il dovere di parlare chi si accinga a dare il suo voto per la conservazione
della monarchia.
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