17 luglio 2008

Il Capo stazione


Tutto il paese era una continua evoluzione, cambiava di giorno in giorno, diventava sempre più grande. Presto arrivò a sfiorare le poche costruzioni del vecchio paese, quelle poche che erano rimaste dopo la guerra e l’abbandono, e per dare modo alle nuove costruzioni di avere nuovi spazi dove sorgere si dovette procedere alla demolizione degli ultimi ricordi. Quel giorno, sulla grande spianata che un tempo era stato il piazzale antistante la stazione ferroviaria del paese, davanti a quello che rimaneva degli edifici che la componevano, nonostante il tempo che rovesciava acqua dal cielo e freddo da dove spirava il vento, c’era quasi tutto il paese.

Era un giorno diverso dai soliti, non per il clima, poiché in mezzo alla grande pianura ogni fenomeno che arriva dal cielo, in qualsiasi stagione, freddo o caldo che sia, è sempre esagerato, nella bassa non esistono mezze misure; Perché c’era qualcosa nell’atmosfera o, forse, nella gente che non era possibile definire, qualcosa che immalinconiva più della pioggia. Quel giorno portavo, sopra agli abiti pesanti, la mantellina azzurra di tela gommata con il cappuccio e, ai piedi, le galoscie di gomma però, nonostante il riparo sotto il grand’ombrello che teneva il nonno, continuavo a sentire la pioggia che mi bagnava girandomi attorno, quasi arrivasse da tutte le direzioni. Il nonno era bagnato fradicio da capo a piedi, come del resto tutti quelli che stavano lì, in quel pomeriggio ad aspettare ammutoliti, con gli occhi fissi in un punto; Un gran silenzio sottolineato dal cupo sottofondo della pioggia e, solo a tratti, interrotto solo dai rumori del lavoro degli operai che, nonostante il tempo inclemente, continuavano ad affaccendarsi faticosamente con picconi, mazze e lunghi cavi intrecciati d’acciaio. Quel giorno si offriva, al pubblico presente, uno spettacolo irripetibile che, complice la natura che ci metteva la scenografia più adatta per l’occasione, sarebbe anche stato indimenticabile: la demolizione della torre dell’acquedotto dell’ex-stazione. Svettava in mezzo al piazzale un alto cilindro in muratura e cemento, sormontato da un altro ancor più grande, ma sempre in mattoni rossi, che era il serbatoio dell’acqua e sul quale restavano, ancora leggibili, i resti della grande scritta a caratteri neri in campo bianco che indicava il nome del paese. Fino all’ultima guerra, quella era stata la stazione ferroviaria del paese, nonché l’ultima prima del ponte che, attraversando il fiume, collegava in quel punto il nord al resto del Paese con una linea ferroviaria tra le più importanti e trafficate. Fu che, a seguito dei numerosi e terribili bombardamenti aerei nel corso dell’ultima guerra mondiale, il ponte e la linea ferroviaria andarono distrutti e con loro anche la maggior parte degli edifici del paese, solamente la stazione, miracolosamente, rimase quasi intatta al suo posto, dopo, non potendola più usare per ciò che era, le stanze e tutti gli altri locali furono destinati ad accogliere gli sfollati, rimasti senza un tetto dove trovare riparo e conforto. Finita la guerra la linea ferroviaria fu ricostruita seguendo un nuovo tracciato e fu costruito anche un nuovo ponte, cosicché l’area e gli edifici dell’ex –stazione furono utilizzati come depositi e magazzini fino a quando non servirono più a nessuno. L’abbandono e l’incuria, col passare del tempo, li portarono ad un lento ma inesorabile degrado, fino quando diventarono un pericolo per la gente che passava di là.

La torre dell’acquedotto, specialmente, stava in piedi per miracolo, diroccata e puntellata da una selva di pali, addirittura in certe giornate di vento, a guardarla bene, sembrava che oscillasse sotto le folate più forti, facendo accelerare il passo, per la paura, a chi si trovava a passare a fianco. Proteste, pericolo, necessità di nuove aree e poi ancora, discorsi e carte bollate che fecero il resto; Fu così che si arrivò a quel giorno, quando eravamo tutti là ad aspettare il momento in cui la torre della stazione sarebbe caduta definitivamente. Ricordo che davanti a tutta la gente stava un signore molto anziano che, ormai piegato dagli anni, rimaneva fermo, immobile come impietrito sotto la poggia battente, non aveva l’ombrello con cui ripararsi ma portava uno di quei grandi impermeabili cerati, con mantellina e cappuccio, di quelli neri usati dai ferrovieri, la pioggia gli scendeva dal cappuccio sul viso e pareva, anche per l’espressione dolorosa che aveva, che a scendere fossero le lacrime di un pianto silenzioso. Riuscii a capire, da alcuni commenti sussurrati a mezza voce dalla gente che mi stava attorno, che doveva essere il vecchio capo stazione e n’ebbi la conferma da mio nonno il quale, successivamente, mi spiegò che quello era stato un uomo importante ai tempi in cui quella stazione era funzionante, bella, moderna e sempre piena di bella gente affaccendata a partire e ad arrivare, ma anche sempre piena di grandi quantità di merci da caricare o scaricare. Mi raccontò che, quando quel giovane capo stazione arrivò in paese per insediarsi alla direzione della stazione ferroviaria, era un uomo di bell’aspetto e forte nel fisico, era uno dei più valenti capi-stazione, si andava dicendo allora, scelto di proposito per completare il quadro di modernità ed efficienza di quella che era un piccolo, ma prezioso, fiore all’occhiello per le Regie Ferrovie. Il capo stazione prese alloggio nel piccolo appartamento, a lui riservato, sopra alla biglietteria e, quando gli impegni di lavoro glielo permettevano, non perdeva occasione per partecipare alla bella vita, offerta dalla gaudente società borghese di allora, la sua presenza era ambita nei circoli frequentati da industriali, commercianti e latifondisti del posto, e ancor più se lo disputavano le giovani di buona famiglia in cerca di un buon partito. Nei ricordi della gente si racconta che quel gran bel giovane, alto ed atletico, aveva un buon carattere e anche buone maniere, insomma un vero gentiluomo che, si diceva, fosse entrato in servizio nelle Regie Ferrovie, dopo aver servito nel Regio Esercito come Ufficiale del Genio. I ricordi della gente a volte diventano leggende, e quella leggenda racconta che il giovane capo stazione aveva infranto molti cuori femminili, ma che, alla fine, non si era mai deciso a prendere moglie e aveva trascorso tutta la vita accasato solamente alla stazione ferroviaria, quella che era stata l’unica compagna fedele e alla quale, dopo ogni storia d’amore infelicemente conclusa, lui tornava a cercare tranquillità e consolazione. Il giorno in cui, con la demolizione della torre di mattoni rossi, se n’andava definitivamente una parte importante della sua vita, non volle mancare, rimase fermo per tutto il tempo ad aspettare la fine, restò piantato là davanti fino a quando, con un fragore assordante, la torre venne giù, abbattendosi su alcuni edifici diroccati che gli stavano in fianco e trascinandoli con sé nella distruzione. Io non ebbi modo di vederlo, ma in molti dissero che se n’andò da quel posto parecchio tempo dopo che se n’erano andati tutti e sentii dire che lasciò il piazzale camminando faticosamente, quasi trascinandosi. Come si è detto, i ricordi diventano leggenda e visto che lui leggenda già lo era, non fu difficile voler credere che, come di solito succede in tutte le storie di amori che non possono finire, anche lui non se la sentì più di vivere dopo avere perso il grande amore della sua vita. Pochi giorni dopo sui cantonali del paese dove di solito erano affissi gli annunci del Comune e i necrologi, apparve anche quello che informava della morte del vecchio capo stazione.

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