30 dicembre 2024

BABBO NATALE E I SUOI FRATELLI

 


Pochissimi sono a conoscenza di un fatto tanto segreto quanto straordinario: BABBO NATALE non è figlio unico, ha infatti cinque fratelli.

Nessuno lo ha mai saputo perché la notizia è stata tenuta “innevata”.

I cinque fratelli sono molto ma molto diversi da lui e sarebbe davvero imbarazzante se nel mondo qualcuno venisse a scoprirlo.

La cosa è talmente importante che persino le giovani renne ed i nuovi elfi sono obbligati al segreto di apprendiStato.

Fonti ben informate dicono che dietro l’organizzazione che protegge questo segreto ci sia Tale Nababbo, un personaggio misterioso, che nessuno ha mai visto in pubblico.

Io però ne sono venuto a conoscenza casualmente grazie all’ascolto attento dei discorsi che faceva una talpa delle nevi ad un amico.

Ecco la loro storia.

Il primo fratello: BACCO NATALE, sopportava la solitudine delle rigide notti polari soltanto ingurgitando quantità industriali di vodka. Aveva un tasso così alcolico che riusciva a sciogliere la neve alitando.

A Natale era talmente ubriaco che non riusciva a portare i regali perché ne vedeva il doppio e non prendeva mai quelli giusti.

Suo fratello Babbo Natale, dopo diversi tentativi finiti male, lo licenziò.

Il secondo fratello: BAFFO NATALE, si teneva i baffi così lunghi ma così lunghi che gli arrivavano alle caviglie; tutti lo chiamavano Baffone.

Era un po’ strano e i genitori della Lapponia lo nominavano per minacciare i bambini quando facevano i capricci, gridando: “Ha da venì Baffone!”.

Lui, disponibile ed ingenuo, era sempre in giro anche se tutti lo prendevano in giro.

A Natale però non riusciva a portare i regali perché inciampava nei suoi stessi baffi e tutti i pacchetti gli cadevano per terra.

Babbo Natale, dopo molti pacchi rotti, fu costretto a lasciarlo a casa.

Il terzo fratello: BALLO NATALE, era un tipo mondano, non mancava mai alle feste danzanti ed era sempre in pista, scatenatissimo, a dimenarsi e a saltare; stava sempre in movimento, continuamente.

Sudava come una renna e poi si ammalava e gli veniva la febbre, soprattutto il sabato sera.

A Natale non riusciva a portare i regali perché, con tutte le piroette che faceva di continuo, i pacchi gli volavano per aria.

Babbo Natale, ormai stanco, licenziò anche lui.

BATTO NATALE era il quarto fratello; si travestiva pure lui come Babbo ma… non proprio allo stesso modo.

Lui preferiva i vestiti da donna perché era in cerca della sua identità di genere e sentiva il bisogno di comportarsi al femminile.

A volte si sentiva costretto a passeggiare di notte sui marciapiedi ghiacciati per cercare disperatamente compagnia.

Quando arrivava Natale non riusciva a portare i regali giusti perché sceglieva soltanto i cosmetici.

Quindi Babbo Natale lo emarginò, lo discriminò ed infine lo licenziò.

Infine c’era lui: BASSO NATALE, il più piccolo di tutti. Era davvero piccolissimo, tanto che Babbo Natale non riusciva a trovargli una collocazione: prima gli aveva chiesto di portare i regali minuscoli ma lui, con le gambe così corte, inciampava nei nastri e faceva cadere tutto; poi gli aveva chiesto di sistemare le letterine dei bambini nell’archivio ma lui, così piccino, rimaneva sommerso dalle buste.

L’ultimo tentativo lo aveva fatto proponendogli di incartare i dolciumi ma lui rimaneva appiccicato allo zucchero con la barba.

Fu così che Babbo Natale, ormai infuriato, lo cacciò come aveva fatto con tutti gli altri suoi fratelli perché non gli servivano a niente.

I fratelli Natale, rimasti senza Babbo, si sentivano senza famiglia.

Ognuno di loro era solo ed emarginato. Quando si ritrovarono insieme, non sapevano dove andare e allora cominciarono a vagare senza meta.

Ma più vagavano, meno si svagavano.

Meno si svagavano, più girovagavano.

Più girovagavano e meno divagavano.

Stavano proprio male perché pensavano sempre al loro sentirsi soli.

Sembrava proprio che tutto andasse storto e si sentirono ancora più tristi.

Una mattina però, dopo aver camminato tutta la notte in cerca di non si sa cosa, ormai sfiniti si trovarono di fronte ad un vecchio muro diroccato su cui qualcuno aveva scritto con la vernice spray:

“Ancora Umili, Garantendo Unità, Riusciremo Indipendentemente Dall’Indifferenza.

Bisogna Udire Ogni Nuova Energia.

Forza! Esprimiamo Segnali Testardamente Educativi”.

All’inizio non capivano; allora lessero e rilessero.

Basso Natale, che era il più arguto, scoprì che se si leggevano solo le iniziali di quelle parole esse formavano un augurio ma se si leggevano tutte le lettere di tutte le parole, formavano una frase che diventava una speranza.

Lui capì allora che le lettere sono come le persone; da sole sono tutte importanti ma, messe insieme in un certo modo, possono diventare una meravigliosa scoperta.

Lo stesso cominciò a pensare di lui e dei suoi fratelli.

Lo spiegò agli altri; anche loro capirono e si sentirono bene.

I cinque fratelli cominciarono a parlare come non avevano mai fatto prima: parlavano meno del prima e più del dopo, meno del passato e più del futuro.

Immaginarono insieme un domani diverso e fecero proposte concrete per il cambiamento: proposte minime come la statura di Basso e proposte importanti come i mustacchi di Baffo, proposte dinamiche come i movimenti di Ballo e proposte forti come la vodka di Bacco, proposte nuove come l’identità di Batto e proposte coraggiose come la voglia di cambiare che avevano tutti loro.

Ne fecero talmente tante che io non me le ricordo tutte; quello che ricordo è che questa storia non ha un vero e proprio finale ma tanti inizi, tanti quanti se ne riescono ad immaginare e poi a costruire.

Comunque pensiate che quel Tale Nababbo, oltre all’anagramma di Babbo Natale, sia un personaggio di altri tempi…. auguri.


28 dicembre 2024

TI RICORDI QUELLA NOTTE


 

Nel paradiso degli animali l’anima dell’asinello chiese all’anima del bue: “Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…?”

“Lasciami pensare… Ma sì - rispose il bue - nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato”.

“Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?”

“Eh no, figurati! Con la memoria da bue che mi ritrovo”.

“Più di duemila”.

“Accipicchia”.

“E a proposito, lo sai chi era quel bambino?”

“Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino”.

L’asinello sussurrò qualche cosa al bue.

“Ma no! - fece costui - sul serio? Vorrai scherzare spero”.

“La verità, lo giuro. Del resto io lo avevo capito subito…”

“Io no - confessò il bue - si vede che tu sei più intelligente. A me, non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un bambino straordinario”.

“Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo delle serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie familiari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea, già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata?”

“Dove?”

“Giù sulla terra, no!”

“Ci sei già stato?!"

“Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare anche tu. Dopo tutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due”.

“Per via di aver scaldato il bambino col fiato?”

“Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la vigilia”.

“E il lasciapassare per me?”

“Ho un cugino all’ufficio passaporti”.

Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi, lievi. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume, vi puntarono sopra.

Il lume era una grandissima città.

Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro, trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano in mezzo senza danno, e a loro volta le due bestie passavano attraverso come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.

Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava ed usciva, tutti carichi di pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti.

Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.

“Senti amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esseri sbagliato. Qui stanno facendo al guerra”.

“Ma non vedi come sono tutti contenti?”

“Contenti? A me sembrano pazzi”.

“Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi”.

Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro.

Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta a un tavolo, una signora molto preoccupata.

Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto messo metro carte e cartoncini colorati, alla sua destra cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà per smaltirlo? La sciagurata ansimava.

“La pagheranno bene, immagino, - fece il bue - per un lavoro simile”

“Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società”.

“E allora perché si sta massacrando così?”

“Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri”.

“Auguri? E a che cosa servono?”

“Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania”.

Si affacciarono più in là, a un’altra finestra. Anche qui gente che, trafelata, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore. Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando pacchi, spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi altre scatole, altri fiori, altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione, ansia, fastidio, confusione e una terribile fatica.

Dappertutto lo stesso spettacolo.

Andare e venire, comprare e impaccare, spedire e ricevere, imballare e sballare, chiamare e rispondere e tutti guardavano continuamente l’orologio, tutti correvano, tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.

“Ma avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità e della pace”.

“Già - rispose l’asinello - una volta era così. Ma cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali!”

Il bue tese le orecchie. Per le strade, nei negozi , negli uffici, nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule di buon Natale, auguri, auguri, altrettanto auguri a lei grazie. Un brusio che riempiva la città.

“Ma ci credono? - chiese il bue - Lo dicono sul serio? Vogliono veramente tanto bene al prossimo?”

L’asinello tacque.

“E se ci ritirassimo un poco in disparte? - suggerì il bovino - Ho ormai la testa che è un pallone. Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?”

“No, no. È semplicemente Natale”.

“Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!” “E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena”. “E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano”.

“Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano!”.

“E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora, le stelle hanno la vita lunga”.

“Ho idea di no - disse l’asino - c’è poca aria di stelle, qui”.

Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.

LETTERA A BABBO NATALE


 

Caro Babbo Natale, quest'anno ti scrivo per la prima volta e spero che tu possa scusarmi per il ritardo, ma nonostante non sia più un fanciullo o proprio perché non lo sono più, ho sentito solo ora la necessità di scriverti e di rimediare a questa mia mancanza che continua da molto, forse da troppo, tempo.

Improvisamente ho sentito la necessità di scriverti, ma non per chiederti di ricordarti di me nella tua lista dei regali di Natale, bensì per scusarmi per il ritardo, e anche per provare a giustificare questa mia mancanza, non certo di rispetto, solo forse di affezione.

Io, per l’età che ho e, di conseguenza, per il tipo di educazione ricevuta e per le consuetudini dei miei tempi che ancora resistono dal tempo della mia infanzia, non ho mai trovato le occasioni per conoscerti e stimarti quanto meriti.

Dalle mie parti, in fondo alla grande pianura, i bambini erano abituati ad aspettare con trepidazione l'arrivo della vecchia, cioè il giorno che per molti è solamente quello che chiude le festività dopo la fine di ogni anno, quello che, per dirla con il proverbio “se le porta tutte via”, cioè l’Epifania.

Sebbene già da allora cominciasse ad affermarsi la schiera dei “Natalisti”, in pratica di coloro che facevano trovare ai loro figlioli i doni, dolci e giochi nella Notte Santa, io sono cresciuto in una famiglia che ancora svezzava e cresceva i bambini a pastasciutta e Befana.

In quella zolla di terra andava forte la tradizione dei regali portati ai bambini dalla Befana, in quei tempi, con tutto il rispetto per il Bambinello che portava l’amore nel mondo e il signore in rosso alla guida delle renne, tendevamo a prediligere la vecchia signora che portava giochi e dolciumi nelle nostre calze appese a stufe e camini.

"La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte..." cominciava così la filastrocca dedicata alla Befana e lei era, da sempre, presente nell’immaginazione di noi bambini con l’aspetto di una vecchietta curva, ma ancora autoritaria e con un caratteraccio da mettere in soggezione anche i più discoli.

Nelle nostre fantasie di bambini vedevamo la Befana come era nelle immagini dei libri di favole o come ce la raccontavano gli adulti, che disegnavano una vecchietta coperta di vecchi e logori abiti, mentre tirava un carretto colmo di pacchi o cavalcando una scopa volante con un grande sacco sulle spalle.

Una anziana signora che nonostante gli acciacchi e anche se già in età di pensione non si arrendeva, e continuava il suo lavoro con una energia incredibile e così tutti gli anni, anno dopo anno, arrivava nella notte tra il cinque ed il sei gennaio, quando ogni bambino dormiva nel sonno più profondo.

Un’altra certezza era quella che non esistevano condizioni climatiche o di traffico tanto difficili da poter fermare l’anziana nottambula, lei arrivava nelle case sempre e comunque, si faceva aprire con autorità poi, prese le dovute informazioni sul fanciullo li domiciliato, depositava i doni.

Nelle storie che circolavano si raccontava che, arrivata nella casa, cominciasse a sfogliare un enorme librone che si portava appresso e sul quale era annotato com’era stato il comportamento dell’infante durante l’anno appena trascorso. Non si poteva sfuggire al giudizio della Befana, quella sapeva tutto e, secondo il suo insindacabile giudizio, avrebbe lasciato giochi e dolci, oppure carbone e castagne secche, dure anche per le dentature più forti

Così i bambini la sera del cinque gennaio d’ogni anno, al contrario di tutte le altre, andavano a letto senza fare storie dopo avere esposto in cucina, in bella vista, le loro calze che, come tradizione voleva, sarebbero servite alla Befana come punto di riferimento per le consegne.

In pratica e meno poeticamente di quanto raccontato, quella notte, verificato che i figli dormissero, entravano in azione i genitori che tiravano fuori i regali, ben nascosti fino a quel momento, e li deponevano vicino alle calzette, dove i bambini li avrebbero trovati al risveglio.

Io custodisco gelosamente un ricordo indelebile di quelle notti in cui venivo improvvisamente risvegliato dal trambusto proveniente dalla cucina che, con il cuore in gola, mi faceva scendere di scatto dal letto per correre verso ciò che già immaginavo.

Tra il sonno che ancora mi tratteneva, l'emozione e il timore di trovare chi sa cosa e chi sa chi, mi affacciavo in cucina dove trovavo ad accogliermi il babbo e la mamma che mi raccontavano che la Befana se ne era appena andata via ma che, dopo aver verificato il mio comportamento nell'anno, aveva lasciato quei pacchi che facevano bella mostra tra le calze appese e tra cui, come sempre, non mancavano mai alcuni simbolici e ammonitori pezzetti di carbone.

Prima di ripartire per il suo giro di consegne, la vecchiarda aveva preteso un caffè del quale ancora vi era traccia nella tazzina sul tavolo della cucina, poi come era arrivata era ripartita, maldestra e scontrosa, facendo un gran baccano.

Col passare degli anni anni avevo intuito che era quel romantico di mio padre ad organizzare quella farsa, ma mi è sempre piaciuto continuare a credere all'arrivo della vecchietta scorbutica e poco rispettosa del mio riposo, era la fiaba che ogni anno entrava nella realtà, un bel sogno che si ripeteva.

Caro Babbo Natale, come vedi ho alle spalle delle esperienze e delle ragioni che spero possano giustificare questa mia minor affezione per te, rispetto a quella per la signora Epifania e ti chiedo scusa se solo ora comincio a rivalutare la tua imponente ma importante figura.

Ti posso assicurare che il tempo, il succedersi dei Natali nella mia vita, prima da figlio, poi da genitore, mi ha insegnato a voler bene alla tua rassicurante e bonaria presenza, a cercare di conoscerti meglio e stimarti di più, e poi sai com’è . . .bè, tra uomini ci si capisce.

Spero tanto che tu non me ne voglia se continuo a riservare le mie attenzioni, prima alla cara vecchietta e poi a te, ma credo che, oltre ad essere un grande vecchio, tu sia un gran signore, che può capire e condividere con me un po’ di galanteria verso la simpatica matura signora.

Con grande affetto ti saluto ricordandoti, come faccio sempre con la dolce cara Befana, di prestare attenzione nel tuo viaggio notturno della notte di Natale.

Questo nostro mondo, man mano che passano gli anni, diventa sempre più confuso e pericoloso e non vorrei che ti succedesse qualche cosa che possa, anche solo minimamente, intaccare la sicurezza dei bambini sulla tua costante presenza nelle loro notti di Natale.

Con, anche se tardivo, grande affetto, il tuo affezionato Bastiano.